All’interno della mostra Light Lab, la luce diventa protagonista assoluta, capace di divenire in modo tangibile significato e significante, mezzo espressivo dell’opera d’arte di cui delinea forma e contenuto. Attraverso il progetto, Museion ha innescato a Bolzano una serie di cortocircuiti, nelle sale e in luoghi cittadini, isolando il momento di tensione del medium luminoso all’interno dell’atto comunicativo. Così la luce è indifferentemente linguaggio silenzioso, evocazione di quotidianità , dislocatrice di sensazioni ed elemento di disturbo.
Di corto circuito -nel vero senso della parola- si tratta nel caso dell’installazione site-specific Elektrosex di Michael Sailstorfer che fa “baciare” due lampioni lungo un sentiero del grande parco cittadino sulle rive del Talvera. E subito scocca la scintilla, intensa ma quasi impercettibile all’occhio, come un innamoramento. Allo stesso modo la quotidianità evocata da Massimo Bartolini si mescola con un effetto di mistero. L’opera invita gli spettatori a sporgersi attraverso una scaletta posticcia per sbirciare fuori da una finestra del museo, un’apertura che affaccia nell’intercapedine buia tra l’edificio e quello vicino. Per scoprire una serie di lanterne, poste quasi ad indicare gli ingressi di altrettanti appartamenti nascosti, di chissà quale misterioso abitatore.
Il disorientamento è creato direttamente dai movimenti continui e circolari della luce nell’installazione FS 272 di John Armleder, una sfera di specchi in stile discoball che riflette i flash abbaglianti su tutte le pareti della sala. Sovrastando un divano rigido ricoperto allo stesso modo di refrattaria superficie specchiante.
Di luce indiretta vive invece la lampadina di Ceal Floyer: pende al centro della sala, ma non è alimentata dall’energia elettrica che la rende incandescente, bensì da quattro proiettori che nel buio illuminano la superficie di vetro.
L’intermittenza disturba la luce emanata da eleganti lampadari veneziani nella sala di Cerith Wyn Evans. Un’intermittenza utilizzata per trasmettere passi di opere letterarie famose, trascritti in tavole alle pareti: il pulsare della luce è utilizzato come un alfabeto morse. Un movimento non poetico (malgrado il titolo M’illumino d’immenso), ma ginnico è quello del laser verde puntato da Mario Airò sulla facciata esterna della vicina università . Qui la linea verticale scende velocemente verso il basso per divenire orizzontale, attraverso un movimento leggermente molleggiante.
L’interno dell’università è ospitata un’altra installazione ambientale, quella di Marcello Maloberti, che qui ripete in larga scala l’esperienza proposta lo scorso anno a Milano.
Con l’aiuto di alcuni studenti ha ricoperto l’intera superficie –dalle pareti al soffitto, alle enormi vetrate– di piccoli pezzetti di nastro adesivo di carta chiara, fino ad ottenere un manto fitto ma non coprente. L’effetto è totalizzante e crea all’interno dello spazio una nuova luce, un filtro inedito. Anzi, un nuovo modo di mettere in luce la percezione delle pareti.
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