Dopo le Biennali di Venezia e Istanbul, Runa Islam (Dhaka, Bangladesh, 1970) approda al Mart. E per ambientare il suo nuovo lavoro, co-prodotto dal museo assieme alla Dunkers Kulturhus di Helsingborg in Svezia, la giovane videoartista sceglie la piccola e accessibile isola di Fårö, a nord di Gotland, un gioiellino nel cuore del Baltico, riserva naturale. Un luogo topico nella storia della cinematografia svedese, selezionato dallo stesso Ingmar Bergman come sito di produzione per due film, il folle Through a glass darkly, girato nel 1961, e Persona del 1966, opera sperimentale, dal pessimismo radicale.
Runa Islam segue le tracce del regista per ricreare attraverso gli stilemi della videoarte un viaggio d’esplorazione costruito sulle basi e le regole del linguaggio cinematografico classico. Cosa non affatto semplice per un video di 13 minuti, in cui il potere esplicativo è tutto basato sulla forza metaforica delle immagini -che scorrono talvolta lente e frammentate nell’avvicinamento progressivo all’isola- e lo scarto visivo. Attraverso la frammentarietà, Runa Islam demistifica il reale, modificandone i significati e procedendo, nell’azione programmatica, per citazioni non troppo nascoste dell’opera bergmaniana.
Ma del lavoro del regista, all’artista non interessa riprendere la complessità psicologica, o la caratterizzazione dei personaggi, che al contrario nella sua storia rimangono volutamente anonimi, spesso sfuocati o colti di spalle. Ciò che l’affascina è la modalità operativa, la difficoltà del metodo, i diversi livelli di lettura che agiscono contemporaneamente, che lei stessa riproduce giocando su tre differenti registri narrativi –i tre luoghi del suo viaggio- che scorrono parallelamente su schermi giganti a tutta parete.
Allo stesso modo si focalizza nell’enfatizzare i dettagli minimi come fossero piccoli eventi, in un percorso in barca intorno all’isola che le permette d’investigare il territorio in modo più allegorico che reale.
La barca deserta, la forza del vento, i tramonti scuri, la pace della foresta, sull’isola dove non c’è nulla e non accade nulla. La citazione ha il suo peso nel momento in cui porta all’esito, al processo creativo. La ripresa focalizza i particolari spezzando la linea narrativa a favore del procedimento costruttivo della storia, che non risulta mai lineare. L’atmosfera onirica delle immagini riprende la tensione sospesa del maestro, ma se in Bergman il paesaggio diviene mezzo per l’interazione dei personaggi, per la Islam invece rimane una componente della costruzione di una grammatica visiva fatta di distanza, presenza, narrazione interrotta, simultaneità, close up improvvisi e long shot.
Il film diventa così medium per il processo analitico del linguaggio e allo stesso tempo veicolo emozionale -i due poli su cui si muove da sempre l’artista- catturando lo sguardo dello spettatore con le atmosfere magiche di una terra che diventa entità inconsistente, mentale ed emotiva, affascinante quanto remota, ricca di quella suggestione incantatrice che portò Bergman a sceglierla come posto dove abitare. “I don’t really know what happened” –scrive difatti il regista nella biografia “Lanterna Magica” nel 1987- “If one wished to be solemn, it could be said that I have found my landscape, my real home; if one wished to be funny, one could talk about love at first sight.”
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