Dopo la parentesi aperta da
Eduard Habicher e chiusa da
Salvo, la Galleria Civica Segantini di Arco torna a focalizzare l’attenzione sul paesaggio trentino. E lo fa attraverso l’occhio sincero e appassionato di
Giuseppe Angelico Dallabrida (Caldonazzo, Trento, 1874-1959).
La retrospettiva si sviluppa attraverso una quarantina di tele, suddivise per zone geografiche “ritratte”. Ma, nell’omogeneità e nella ripetitività dei soggetti, Dallabrida riesce ad approfondire una ricerca stilistica che si discosta dalla tradizionale pittura di genere.
Più che pittore di paesaggio, infatti, Dallabrida è pittore di atmosfera. L’attenzione per le variazioni, che lo spinge a dipingere lo stesso ambiente in condizioni di luce diverse, il rifiuto per la datazione delle tele, la sostanziale uniformità dei soggetti evidenziano l’indifferenza del pittore trentino per i connotati oggettivi e descrittivi del paesaggio. La sensazione è che quest’ultimo venga sottomesso a una concezione universale, atemporale e quasi mitica della natura.
Ne viene fuori il ritratto d’un pittore che si situa in una posizione peculiare rispetto al panorama artistico coevo, al quale pur partecipa. Personaggio solitario, errabondo e taciturno, Dallabrida instaura con la materia pittorica un rapporto carnale, sopraffacente, quasi ossessivo.
Nelle sue tele, la questione del rapporto con il rappresentato non si arena nello sviluppo di un’immagine: è investigato a fondo, sia nella superficie che nella sostanza. Di qui la possibilità d’inserire nelle tele erbe o elementi organici; di dipingere su rozzi sacchi di iuta, lasciando ampie zone nude; di lavorare la materia pittorica con le dita.
Non solo erede estremo di certa tradizione (fu definito dalla critica del tempo “
l’ultimo degli impressionisti”), ma anche sperimentatore di nuove possibilità per la pittura, Dallabrida ha tracciato un percorso singolare e ricco d’interesse per la pittura della prima metà del secolo scorso.