Ordinati, ritagliati nel verde dei prati che circondano i masi alpini.
Lynn Carver (Ithaca, 1942; vive a Monfumo, Treviso) ripete fedelmente nelle sue opere in stoffa il ritmo preciso dei fazzoletti coltivati in montagna e le espone proprio nel Tirolo italiano, nel montuoso Trentino, negli spazi cittadini del Festival di arte-natura
Artesella.
La natura da Carver è metaforicamente addomesticata rispetto ai progetti che il Festival propone nei boschi della vicina Val di Sella, ai quali è imposto di entrare in perfetta simbiosi con la natura, senza modificarla, senza condizionarla. L’idea dell’orto, per Carver, è invece molto vicina a quella di un giardino zen: corrisponde a un percorso intimo. Del resto, piuttosto che un ampio e monotono campo di verdura in pianura, è proprio il piccolo riquadro recintato di montagna a rendere concretamente l’immagine di
hortus conclusus, di interiorità.
L’intimità, per Lynn Carver, è sempre stata una necessità. Tanto da descrivere New York, in una sua opera, come un labirinto. Da trent’anni l’artista vive in una casetta sulle colline isolane. Ma non lo racconta per evocare un’immagine romantica e
old fashion, bensì per scoprirsi un po’, come fa nelle sue opere: la stoffa, infatti, spesso si solleva in un angolo, quasi fosse la coperta di un letto che attende un ospite.
Le sue opere devono esser penetrate dall’osservatore. Anche questa è una necessità dell’artista: stare a lungo da sola a cucire con la sua vecchia macchina a pedale, e poi uscire a dialogare. Così i suoi orti si aprono idealmente all’esterno, com’era visibile in città dai passanti la severa geometria (scandita da cemento e metallo) dell’orto di
Tobias Rehberger a
Manifesta 2 (1998) in Lussemburgo o com’è ancora visibile (dal 1994) l’esteso
Black Garden circolare e violaceo di
Jenny Holzer a Nordhorn, in Germania, quale memoriale della Prima guerra mondiale.
Altre serie di opere si muovono nella palese direzione dell’esteriorizzazione. Sono quelle dedicate al
lettering: i fogli di giornale o le pagine dell’elenco del telefono che Carver riproduce fedelmente. Sono informazioni già pubbliche, che l’artista fissa in una visibilità ancor più spinta, “scolpendole” sulla stoffa e rendendole epigrafi per i posteri.
Eppure, anche in questi lavori c’è la risposta alla medesima necessità, quella di scavare dentro di sé, senza parlare direttamente di se stessi, ma ripetendo operazioni che diventano ipnotiche e che innescano un mantra.
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