In un’epoca in cui l’arte non è mai stata così
istituzionalizzata, in un proliferare di fiere, biennali e musei, la Civica di
Trento innesca un meccanismo di de-normalizzazione, buttando l’intero progetto
espositivo fuori dei suoi spazi.
Lo fa a vent’anni dalla propria costituzione e un attimo
dopo la ri-costituzione come Fondazione, nel tentativo di ripensare e innovare
la propria identità, ma anche con la sincera dichiarazione d’inadeguatezza
degli spazi usati negli ultimi anni.
Il progetto risulta preciso e cosciente già nel titolo,
Celebration.
Institution. Critique,
che blocca il termine ‘istituzione’ nel mezzo di due opposte azioni: una di
affermazione, l’altra d’interrogazione. Quasi fossero l’una il passato ruolo
dell’istituzione nei confronti dell’arte, e l’altra quello futuro.
Quindi, da una parte la mostra inaugurale “fa l’appello”
ad alta voce attraverso una carrellata di opere esposte negli ultimi vent’anni
alla Civica (
Merz,
Clemente, Ontani,
De Dominicis…) e ora allestite presso altri musei
(il Diocesano, il Castello del Buonconsiglio e il Centro Culturale Santa
Chiara). Dall’altra sono stati invitati giovani artisti italiani a realizzare
ognuno un progetto speciale, il cui comune denominatore risulta la stessa
dichiarazione d’intenti sottesa nel titolo: mettere in discussione l’idea di
istituzione.
Lara Favaretto in un colpo solo vuol seppellire sotto otto metri di
sacchi di sabbia il concetto di monumento e il simbolo per eccellenza
dell’identità italiana: Dante Alighieri. Non riuscendoci per sopraggiunti
problemi tecnici, lascia comunque attorno alla statua del sommo poeta, di
fronte alla stazione del treno, una bassa trincea irregolare, che finisce per
essere più interessante del progetto iniziale, ponendo un interrogativo su
credo e appartenenze del passato e del presente, innescando lo sfogo dei
lettori dei quotidiani locali e rendendo celebre fin nei bar della regione il
fatto che l’arte oggi non è solo pittura ma pure installazione (un termine fino
a prima sconosciuto ai più).
Scompone i simboli del passato anche il lavoro di
Luca
Vitone, che
disarticola i nomi di artisti a lui cari in lettere luminose sparse sugli
alberi della città. Ferme tra i rami, appaiono come palloncini con bigliettini
dei desideri che non hanno preso il volo.
Chistian Frosi decide di asciugare la sua
partecipazione in maniera radicale dalla presenza di oggetti e dalla stessa
invadenza dell’artista, chiedendo ai ricercatori del Museo di scienze naturali
di rendere in un loop online le foto della loro normale attività svolta “dietro
le quinte” dei laboratori.
Azione ideale è anche la scelta di proiettare il video di
Paola
Pivi con pesci
rossi che viaggiano dentro bocce di vetro adagiate su sedili d’aereo.
Aggiungendo un elemento di ridondanza, questo viaggio surreale è messo in scena
sulla facciata della sede dimessa dell’Ufficio turistico, un’istituzione morta
nell’epoca delle vacanze prenotate su Internet.
E l’istituzione Civica? Striscia nella città come un
serpente risvegliato in una pelle nuova, mentre le vecchie spoglie vuote della
sede sono ribattezzate
Archivio del Futuro secondo un progetto di
Massimo Bartolini.
Mentre nel seminterrato,
Giorgio Andreotta Calò (primo d’una serie di personali
di un mese) recita un
requiem alle mostre tradizionali, esponendo con regolarità begli
oggetti in materiali pregiati su fondo di tessuto nero, illuminati dalla luce
precisa di faretti direzionali.