Un confronto tra artisti di tutto il mondo che utilizzano la tecnica del ricamo è stato costruito, con perizia e sapienza, dai curatori Giorgio Verzotti e Francesca Pasini.
Capita spesso di imbattersi in artisti che usano il filo al posto del colore e l’ago al posto del pennello, suscitando interesse e a volte stupore per le qualità e le potenzialità di questa tecnica. Si tratta di tecniche in realtà recuperate dal passato, da mondi silenziosi e repressi – come quello femminile in Occidente – oppure di testimonianze di realtà sociali lontane, dove esiste ancora un’individualità relegata e censurata. Sono per questo però pratiche ai margini dell’arte considerata ”ufficiale” perché la linea di
La mostra si pone lo scopo di mettere a fuoco la prosecuzione di un percorso cominciato all’inizio del secolo scorso ad esempio dal Futurismo con gli arazzi di Depero e dalla Bauhaus . Oggi infatti l’arte contemporanea sta continuando questa strada in modo innovativo e ampio, raggiungendo risultati significativi. Gli artisti selezionati per documentare questo percorso sono 29 e interessante è pensare che molti lavori sono stati… ricamati per l’occasione.
Una figura cardine è stata individuata in Alighiero Boetti, che per primo, negli anni Settanta e Ottanta, si è confrontato con questa tecnica e con un mondo altro per sottrarsi, per dirla con Verzotti, ”all’autorità del soggetto occidentale […] per
A riempire questa assenza c’è però la ricchezza di ciò che è stato prodotto in questi ultimi anni. Numerosi artisti provengono da luoghi che erano o sono tuttora centri di conflitto geopolitico ed etnico. Ed ecco Carlos Arias dal Cile, Maja Bajevic dall’ex Iugoslavia, Erzen Shkololli dal Kosovo, Mona Hatoum dal Medio Oriente. Se questi testimoniano i conflitti vissuti nei propri paesi, altri si misurano con il racconto puro della forma, senza dimenticare la propria cultura e senza abbandonare una prospettiva critica nei confronti della disgregazione dei valori. In questo contesto si inseriscono le opere di Elizabeth Aro, Elena del Rivero e Doris Salcedo, ma va rilevata anche l’altra significativa assenza dell’israeliana Orly Ogan, che nella sua rappresentazione trasgressiva della lussuria femminile racconta favole ricamate su tele pregiate.
Tra gli artisti italiani c’è Claudia Losi. Nel catalogo lei dichiara che “il ricamo considerato come ‘pratica’ specialmente femminile non mi interessa ”. Le interessa invece la possibilità di relazione che questa modalità innesca: ad esempio in Belgrade Project la realizzazione venne affidata a tre donne serbe in un campo profughi. Maria Lai, invece, scrive su libri con ago e filo: in Autobiografia da collezione o in Ciò che non so la scrittura deborda dalla pagina come se non potesse avere limiti. Angelo Filomeno, che vive e lavora a New York, è tra i giovani uno dei più convincenti. Qui propone la testa di pavone mozzata di End of Presumption e le mosche di Soul Vaccine Shot, entrambi ricamati con la macchina da cucire su shantung di seta. C’è anche Maurizio Vitrugno che lavora su immagini del passato, come le vecchie pubblicità, o su icone, come Lou Reed e David Bowie. C’è infine Francesco Vezzoli, ma il suo Omaggio a Fortunato Depero è risultato veramente debole e poco efficace.
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