Il Museion ha da tempo adottato una pratica estremamente intelligente. Per tutta la durata delle mostre che ospita nelle sue sale, uno spazio è riservato ai cataloghi e ai libri d’artista. Un’abitudine alla comunicazione, alla didattica soft, utile sia per il curioso che per il professionista. Nel caso di Roni Horn (New York, 1955), è un’occasione per ammirare il progress di To Place, volumi dedicati a quell’Islanda che da decenni l’artista frequenta. Verbo e non sostantivo, per un luogo che si sgancia dalla fissità geografica e diviene esperienza inevitabilmente fluida. Che poi l’origine ebraica di Horn, come ricorda Angela Vettese, sia all’origine del suo particolare amore per la lingua, è un’altra questione. Che l’artista stessa ha spesso ribadito, fra l’altro in occasione della personale al Pompidou: “Comincio con il linguaggio e finisco per ritrovare il visivo”.
Leggendo dunque i saggi in catalogo, e soprattutto le ispirate parole di Tacita Dean, emergono una serie di concetti sui quali si potrebbe discettare a lungo: serie, appunto, identità e differenza, doppio, esperienza e memoria, sensi e sinestesia. Oppure si potrebbe analizzare la questione delle tecniche: il disegno, la scultura, la fotografia e tutti gli altri medium con cui l’artista ha dialogato. Sarà per una reazione forse inconscia, ma il riferimento di Tacita Dean al tempo atmosferico è stato quello che più ha fatto breccia. Il tempo del cielo, quello di cui si parla quando non si ha molt’altro da dire al proprio interlocutore, il tempo del “cosa mi metto oggi” e del ticchettìo della pioggia contro i vetri della finestra.
Approccio ingenuo, selvatico. Che però permette di ripercorrere con ogni senso e in tutti i sensi i concetti di cui sopra. L’esperienza è il cardine dell’opera di Roni Horn, e sensoriale è il nostro ingresso nel mondo.
Il passaggio dal liquido al gassoso dell’atmosfera, dal calore materno alla temperatura circostante, dal buio del ventre alla luce dei neon di una sala parto. Immaginiamo il contesto estremo dell’Islanda, quanto possa aver attirato l’artista. La luce tersa, violenta, che si schianta sui papaveri blu dell’Himalaya che campeggiano sulla copertina del catalogo. I climi che avrà incontrato negli spostamenti fra Bolzano ed Edinburgo per organizzare questa mostra bifronte. E naturalmente le esperienze dello spettatore che osserva immagini doppie, bifocali verrebbe da pensare, ma in realtà diverse, come d’altronde diverse sono le stesse immagini che ognuno dei nostri occhi si forma osservando la medesima (?) immagine. Processo che raggiunge il limite immaginabile dalla natura umana quando fissa (quando tenta di farlo) fotograficamente l’acqua. Di un Tamigi scuro e cupo (nella serie Still Water The River Thames, for Example, 1999), sotto la cappa della bassa pressione o punteggiato dalla pioggia, oltre che dal suo stesso incessante vorticare. E dove numeretti sulla stampa si riferiscono a microstorie inserite come didascalie, anch’esse subito fuggite nel concatenarsi disinvolto e fuggevole.
Esperienza anche del tempo vissuto, certo, in maniera apparentemente più gaia nella sconfinata serie This is Me, This is You (1999-2000), con la nipote Georgia che cambia inesorabilmente, e ancora sui doppi pannelli-leggii di Doubt by Water, con i ghiacci immersi nel mare e dall’altro lato volti di adolescenti a petto nudo. Ma torna l’atmosfera, nel sogno millenario dele genere umano, con la serie di doppi scatti Untitled (1998-1999), ritraenti “di spalle” coppie di volatili. Puro gioco di forme e colori. Che innesca l’immagine mentale del frastuono dell’aria nella fenditura inferta dalle ali e dai becchi.
Che tutto ciò sia comunicato soltanto mediante immagini statiche, fotografie e non video, è l’ennesimo esempio, straordinario, di come la libertà spesso nasca dalla norma.
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