Ci sono due dinamiche di rappresentazione sostanzialmente inconciliabili, due modi diversi e contrapposti di raccontare la realtà o di rapportarsi con essa.
Alcuni artisti (o narratori, o poeti) sono
allusivi, mostrano cioè una porzione oculata di informazioni o eventi, scegliendoli per il loro aspetto connotativo, per tutto il bagaglio che naturalmente si portano dietro, per la loro capacità di veicolare senso al di là della loro stessa natura. Se dovessimo dirlo con una parola, il loro metodo è addizionale, e l’effetto finale è incrementato dalla numerosità degli elementi.
Vi sono personalità e approcci che, invece, prediligono essere
elusivi, ossia scelgono opportunamente tutte le cose da non mostrare, tolgono gli elementi in eccesso e quasi si nascondono tra le informazioni: il criterio è sottrattivo e la bontà del lavoro si misura sul distillare, su togliere quello che è in più o che si frappone al destinatario finale.
Ha maturato questa modalità
Ulrich Egger (San Valentino alla Muta, Bolzano, 1959), che nel lavoro esposto alla galleria meranese spinge sull’acceleratore della semplicità senza mai peccare di semplificazione, mettendo in mostra, con estrema pulizia, un lavoro asciutto e coerente basato sulle dinamiche dell’abitare e dell’urbanizzazione industriale.
L’osservatore è accolto da un trittico di grandi dimensioni con fotografie di un tetto e di un cortile, scattate con diverse ottiche e da differenti piani di ripresa. Alcune delle parti metalliche degli edifici (per esempio le grondaie) sono state sostituite da vere lamine in ferro, aspetto di cui ci si può rendere conto solo dopo un’accorta osservazione. Similmente si coglie un aspetto straniante – dovuto a una sorta di scomposizione cubista della scena – che costituisce una sorta di rebus visivo.
La stessa stanza ospita
Concessione Edilizia, scultura costituita da una ventina di scatole di cartone ammassate casualmente come fossero mattoni abbandonati; ciascuno dei contenitori è stampato con fotografie che ripropongono dettagli di ferri d’armature e viste di edifici. Qui la casualità della disposizione dà la sensazione di riprodurre l’effetto di uno sguardo lanciato su una qualsiasi periferia delle nostre città, come capita anche un paio di stanze più in la, con una foto di grandi dimensioni che mostra un palo della luce contro uno sfondo che pare un telone di protezione di un ponteggio, con una vaga atmosfera di sdrucita provvisorietà alla
Botto & Bruno.
La parte alta della galleria è occupata invece da lavori a parete nonché da un carrello che ripropone, in scala, un condominio in rovina, quasi fosse distrutto da un terremoto. I laterizi fuoriescono e uno squarcio ne mostra la struttura interna inconsistente e provvisoria, sensazione rafforzata dalla collocazione della scultura su un carrello mobile con tanto di ruote. A testimoniare come quel pezzo qualsiasi di periferia o di abitazione, prima ancora di essere abitato da uomini e di crollare, forse sia un
non luogo mai realmente esistito.