Una grande tela monocroma con una scritta al centro, “
Quando mi vidi non c’ero”, si dichiara autoritratto dell’artista. Un libro aperto con un buco nel mezzo, dove ci si aspetta il testo, è un
Libro dimenticato a memoria. Un deserto si apre in mezzo alle pareti nere, sovrastato da una frase criptica, “
Quando l’agnello ruppe il primo dei sette sigilli uno dei quattro viventi disse con voce di tuono: vieni”, mentre la voce dell’artista, che pronuncia i numeri da uno a dieci con intonazioni diverse, dà allo spazio espositivo una dimensione mistica e rituale.
Scardinatore delle convenzioni, delle aspettative e delle certezze della rappresentazione,
Vincenzo Agnetti (Milano, 1926-1981) si è imposto come figura cardine delle ricerche concettuali italiane degli anni ’60 e ’70, prima come teorico a fianco del Gruppo Azimuth e poi direttamente come artista. Dedicandogli una retrospettiva, il Mart porta avanti il proprio intento dichiarato, ossia dare visibilità ad artisti fondamentali per l’arte contemporanea nazionale, finora poco valorizzati. E, in quest’occasione, l’opera di Agnetti di visibilità ne ha parecchia. I lavori presentati coprono quasi tutta la sua carriera artistica, da quella più conosciuta della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, all’arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni ’70 alla morte di Agnetti. I due periodi sono però fusi in modo armonico con un allestimento lineare e pulito, che permette di riconoscere il filo rosso che unisce in un’unica melodia le ricerche dell’artista. Cioè l’analisi del linguaggio e delle sue possibilità.
Come emerge sin dalle prime opere, Agnetti concepisce il linguaggio sia come mezzo per la rappresentazione della realtà che come fine, analizzato nella sua dualità di forma e contenuto. Questa dualità è evidente in lavori come i
Libri dimenticati a memoria (1970), emblemi della mancanza di sostanza di molta cultura; le
Semiosi, le
Dissolvenze, le
Comete, testi prodotti da una
Macchina drogata (1969) che permette di scrivere parole senza senso grazie a una calcolatrice distorta, con la coscienza che il contenuto sia la parte più “deteriorabile” del linguaggio. Si capisce allora l’utopia che sta alla base del
Progetto per un Amleto politico (1973), un’assemblea in cui tutte le nazioni possano comunicare attraverso un linguaggio universale, come i numeri da 1 a 10.
Si passa così alla riflessione sul rapporto tra linguaggio e rappresentazione, con i
Ritratti (1970), feltri con scritte evocative e filosofiche, e con
L’età media di A, in cui l’età di una persona viene ricostruita attraverso un complesso sistema di calcolo. L’elemento comune che emerge da questi lavori è il tentativo di decostruire la realtà attraverso sistemi numerici, assiomi e tautologie. Come se l’artista, faticando a trovare punti di contatto con la realtà circostante, usasse questi espedienti per cercare di esorcizzarla. Agnetti, insomma, distilla la realtà, ne elimina lo strato superficiale per far emergere il midollo della questione. Sovverte le aspettative, negando le relazioni logiche tra forma e contenuto, tra mittente e destinatario (
Autotelefonata, 1972), tra immagine e simbologia (
XIV-XX secolo, 1970).
La mostra si pone come l’istantanea di uno dei momenti fondamentali per la storia dell’arte contemporanea. Poiché in Agnetti si ritrovano le radici duchampiane del ready made (
Pittore del 1800, 1974), le riflessioni semiotiche di Kosuth, la dimensione performativa. Il tutto reso attraverso uno sguardo lucido e disilluso sulla realtà. Che valse ad Agnetti l’appellativo datogli da Achille Bonito Oliva: “
Marte dei malcontenti”.