Kunst Meran/o Arte ha aperto il 2008 con la mostra
Vote for women e lo chiude con
L’occhio di Meret Oppenheim, disegnando un itinerario dedicato alla produzione artistica femminile di oggi e di ieri.
La monografica – curata da Valerio Dehò e realizzata grazie al patrocinio della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano – raccoglie sessanta pezzi degli ultimi vent’anni di attività dell’artista, dagli anni ‘60 alla sua morte nel 1985. Attraverso oggetti, disegni, fotografie, oli e cartografie si ricompone il ritratto di un’artista la cui ricerca non è mai stata disgiunta dalla sfera di ricerca intima e personale.
Sebbene l’estrema libertà espressiva di
Meret Oppenheim (Berlino, 1913 – Basilea, 1985) – che le fece mantenere sempre una posizione eccentrica rispetto al movimento surrealista, cui pur volentieri si avvicinò – impedisca di tracciare una linea rossa continua nella sua produzione, l’allestimento della mostra permette di affrontare le sue opere per nuclei tematici e per tecniche distinte.
Si passa dall’oggettistica, la pratica forse più celebre dell’artista, ben rappresentata da lavori come
L’orecchio di Giacometti (1977) e lo
Scoiattolo (1969),
ai numerosi disegni e assemblage, alla ricca serie di fotografie, che vedono l’artista sia come autrice che come musa negli scatti di
Man Ray. Completano l’immagine di Meret Oppenheim le documentazioni video (filmati basati sui suoi poemi e documentari a lei dedicati negli anni ‘80) e un carteggio inedito tenuto con il regista
Georges Goldfayn, che ci svela la dimensione più intima della donna.
Nell’estrema varietà della produzione di Oppenheim si coglie la volontà di far emergere l’inafferrabilità e la ricchezza di sfaccettature che compongono il reale, e la presenza di una spiritualità che supera i linguaggi preconfezionati. I suoi soggetti principali, che tratta con ripetizione quasi ossessiva ma con variazioni inaspettate, sono figure archetipe quali le nuvole, il serpente, i sassi, caricati di un significato irrazionale e allusivo. Familiare sin dalla gioventù con le teorie di Jung sull’inconscio e sull’onirico, Oppenheim ha portato a compimento un viaggio nell’investigazione delle pulsioni più irrazionali dell’essere umano, non isolandole nell’analisi intimistica del sé, ma allargandole alla sfera dell’inconscio collettivo. Proprio in questo suo ragionare sugli istinti collettivi, avulsi da distinzioni di sesso, epoca storica o etnia, sta la modernità dell’artista.
L’opera che forse si può ritenere la summa della produzione di Oppenheim è
L’occhio di Mona Lisa (1967), che dà il titolo alla mostra: dopo anni di sperimentazioni, negli ultimi decenni l’artista torna a mettere in primo piano la pittura (attraverso lo stesso soggetto snaturato dal surrealismo di
Duchamp), la donna e lo sguardo. Come se il surrealismo rimanesse come sottofondo, come background per temi immanenti quali la consapevolezza del proprio essere donna e del proprio eccezionale contributo nella lettura della realtà.