Polveri, acqua, cemento, ghiaia; casseri e barre d’acciaio. In mostra al Mart non si vede alcuno di questi materiali, e nemmeno la loro combinazione. Non si trovano gli stampi d’impasti ben riusciti né le rese di miscelature amalgamate alla perfezione. Quel che si può osservare è l’opera di uno scultore che ha saputo cosa chiedere alla materia e come ottenere da essa la giusta espressione, la miglior resa delle risposte. Interpretandola.
Il dialogo che
Giuseppe Uncini (Fabriano, Ancona, 1929 – Roma, 2008) ha instaurato con il calcestruzzo, sin dalla fine degli anni ’50, gli ha spianato la strada. Appena ventiquattrenne si trasferisce a Roma, invitato da
Mannucci, che lo introduce al vivere rutilante di
de Kooning,
Afro,
Colla,
Burri e
Capogrossi. Quattro anni dopo firma il ciclo delle
Terre, tavole realizzate con oli e tempere, tufi, sabbia, cenere e terre, appunto. Alimentando così quella che sarà chiamata Giovane Scuola Romana, al fianco di
Festa,
Lo Savio,
Angeli e
Schifano.
Il Mart organizza la prima corposa antologica di Uncini dopo la sua morte, avvenuta ormai un anno fa. I cementi armati non sono però, come si potrebbe pensare, il solo leitmotiv della mostra. La vera guida di questa retrospettiva è la luce, singolare rivelatrice della tecnica dell’artista marchigiano. Grazie a essa, la superficie dei lavori fa emergere l’incursione del ferro nei
Ferrocementi e la finezza delle
Strutturespazio. Opere che sbarcheranno alla Biennale di Venezia nel 1966. In entrambe le serie, il senso architettonico gradualmente prende il sopravvento, dando una sterzata quasi ambientale alla concezione dell’opera.
Se l’ombra, da
Caravaggio a
de Chirico, gioca un ruolo ideologico essenziale nella differente drammaturgia dei due maestri – scrive Bruno Corà in catalogo -, in Uncini si materializza e prende forma, tramutandosi da immagine incorporea a volume reale, con le importanti conseguenze fenomenologiche che ne derivano.
E se questo passaggio inizialmente sembra sottolineare l’intuizione metafisica, col tempo si comprende meglio e si può verificare che ha potenzialità inedite, impreviste. Da elemento tradizionalmente gregario, l’ombra diviene infatti
protagonista della poetica unciniana, in una teoria formale a tal punto articolata e complessa da rivelare un universo del negativo e dell’alterità fisica palesemente influente sulla sua successiva plastica costruttivo-architettonica. Un’idea di tridimensionalità domestica che si palesa negli
Spazicemento, nelle serie dei
Tralicci e dei
Muri di cemento, che documentano gli ultimi vent’anni di attività.
Per Uncini, dunque, scolpire non è stato “soltanto” sinonimo di rimescolare, addensare, plasmare, colare e contenere. Per Uncini scolpire è stato anche e soprattutto rendere l’incolore un gesto epigrafico della trasparenza.