I luoghi con una storia sembrano essere un’ossessione ricorrente nel pensiero dei curatori dell’edizione italiana di Manifesta e sono probabilmente il sintomo di un declino postmoderno che, forse con più intensità, il nostro Paese evoca. Non si avverte il semplice tentativo di risemantizzare il vecchio con la cipria del moderno, in una modalità che, ormai da molto, è di moda e sarebbe potuta svilupparsi anche nel vecchio stabilimento dell’ex Alumix di Bolzano.
Invece, come testimoniato dalla scelta delle sedi delle mostre -non a caso tre delle quali sono accomunate dal prefisso linguistico
ex-, c’è piuttosto la volontà di capire quale sia la dote che il tempo passato ha tramandato. Ma anche quali le implicazioni e gli effetti, nell’epoca attuale, del fardello dell’idea di progresso che ci è stata affidata, forse contro il nostro volere, in un momento in cui la storia è già stata scritta e non resta che negarla o falsarla.
Le considerazioni presentate nei corposi cataloghi che corredano le mostre (in maniera particolare il volume
Companion, che raccoglie i contributi critico-teorici) fanno frequentemente ricorso ad analisi di natura socio-antropologica e nascono probabilmente anche dall’urgenza di ripercorrere -dopo anni di sbornia di un contemporaneo ricco, dandy e sensibile al mercato- una pratica curatoriale riflessiva, attenta ai risvolti etico-sociali. Il taglio è stato così quello di sviluppare tematicamente la mostra, prediligendo i
lavori ai
nomi, e infatti molti degli artisti sono poco conosciuti, anche internazionalmente.
Nel panorama offerto da Manifesta 7, la mostra di Bolzano si delinea nei risultati non solo come la più compiuta ma anche quella più calibrata per un visitatore che va stimolato intellettualmente ma non messo alla prova da un numero eccessivo di opere, come capita nella pur pregevole esposizione presso la sede delle Poste di Trento. È la foto su muro di
Dayanita Singh che mostra stabilimenti industriali indiani attualmente in attività in cui viene prodotto l’alluminio ad accoglierci all’ingresso dell’Alumix, prima di accedere a una sala dall’enorme volumetria, al cui centro è posta l’installazione di
Zilvinas Kempinas, realizzata svolgendo il nastro magnetico di decine di videocassette, rese però inservibili, dalle quali non potremo più avere accesso a quella memoria cui per molti anni abbiamo affidato molte delle nostre quotidiane immagini in movimento.
Altri artisti come
Graham Harwood hanno lavorato invece sul disegno (in particolare il fumetto), raccontando la storia sociale sull’alluminio, mentre
Gyane Calovski ha prediletto l’analisi urbanistica e territoriale con mappe e relativi plastici.
Walter Niedermayr sintetizza ciò che resta con la foto di un obitorio con suppellettili metalliche e
Jörgen Svensson fa centro rendendo lo spettatore involontario protagonista di un gesto di estrema scopofilia necrofila: sono omicidi quelli che mostra in
The Worlds Next door (in cui delle persone vengono assassinate) e costruisce sui crimini dei finti docufilm, con l’esito che per l’osservatore non esiste differenza con la realtà.
È fatica vera invece quella di
Melati Suryodarmo, che regge una lunga asta metallica con il petto e con le braccia, cui si affida in una pratica di meditazione e sforzo fisico. Ci resta però la forza per un sorriso, assolutamente cattivo, per
Chernobyl di
Jaime Pitarch, che ci mostra un matrioska che ha subito mutazioni genetiche. Nelle parole dei curatori, è evidente che si tratti di “
critica e antidoto alla presunzione narrativa del progresso”.