Una mostra
pesante ben più dei 21 grammi di anima che, secondo alcune credenze, esalerebbero dalla spoglia al momento del trapasso. Una mostra
corposa, benché scaturita da un’essenza così impalpabile e dai “
molti guai” dovuti al suo “
trasporto”. Traslazione avvenuta in un luogo emblematico, di per sé legato all’idea di “trasmissione”, ma prevalentemente articolato in un labirinto di ambienti angusti e disuguali dalla dubbia vocazione espositiva, con una mesta aria da tribunale kafkiano non dissipata da un allestimento costretto a fare di necessità virtù. E che, affacciandosi sul baratro dell’
interiore, pare farsi travolgere dalla vertigine dell’
horror vacui.
Molti i video, e non sempre calibrati in quanto alla durata, abbondanti i disegni. Poche le installazioni, scarsa (e scadente) la pittura, vedi il mélange stilistico di
Christoph Rockhäberle o il banale d’àpres orfico di
Bernd Ribbeck, accenno a un site specific variamente rispettato, dall’architettura all’etnologia.
Caratteristico è, infatti, uno sguardo multifocale che, nel poker degli eventi principali di Manifesta, ha il pregio di esplicitare in modo meno intellettualistico e visivamente più sostanzioso il proprio filo conduttore, caracollando però in una sorta di dispersiva e sparpagliata coerenza, solcata dai grumi agglutinanti di alcune “micropersonali” (su tutti, l’eclettica
Anne-Mie Van Kerckhoven).
The soul è anche, fra le quattro proposte, la più “biennalesca”, sia per mole di opere che per un’eco della lugubre Venezia 2007 firmata Storr. Tanto per l’intento di sfidare il presunto tabù della morte (i video dell’“imbalsamatore”
Omer Fast), quanto per il taglio “politico” che amplia il problema dell’anima a caso di coscienza collettivo, sviluppato però con uno storicismo espiatorio ancora fermo su nazifascismo e colonialismo, stante pure la massiccia presenza di artisti d’area israelo-palestinese, detentori del ruolo di ombre di Banqo dell’Occidente.
E di un’Europa che ha ancora qualche difficoltà a gestire le proprie radici cristiane, poiché, in una rassegna che ha avuto un preludio
tridentino nella censurata rana di
Kippenberger al Museion di Bolzano, si preferisce non scherzare coi santi. Vago l’accenno mistico all’ingresso, più tributo al variopinto
vate lenticolare
Ontani che prologo organico al percorso successivo, inoffensivo il “paradiso artificiale” blandamente ironico di
Pietro Roccasalva. Eccesso di politically correct o di prudenza, qualsiasi spiccato riferimento religioso viene accantonato, disinnescando eventuali motivi di scandalo o provocazione.
Sicché, nella città del Concilio, la questione ontologica dello spirito viene elusa a favore della psicanalisi e della psichiatria. Una prospettiva che retrodata la mostra di almeno un secolo e mezzo, agli albori delle nuove discipline tese a scandagliare
razionalmente le oscure profondità dell’essere, fino a quel momento strette tra diavoli corruschi e incensi fumanti. Una sistematizzazione positivista (confermata, caso mai ci fossero dubbi, dalle amletiche scimmie di
Klaus Weber) che si riflette anche sull’impaginazione espositiva, disseminata di “Museums”, vetrine didattiche per studi sovente obsoleti. Per quanto fondamentali, come quelli del rivoluzionario Franco Basaglia, segmento di un perimetro patologicamente tracciato sulla cruna dell’inconscio, ove fioriscono le nevrosi, ribollono le ossessioni e le pulsioni mordono il freno. E dove resiste una memoria che, in questo perpetuo vagabondaggio curatoriale tra intimo e pubblico, passando dalla dimensione domestica sosta sul territorio.
Dove lavorano
Althea Thauberger, che porta la carne, la morte e il diavolo tra le minoranze ladine della Val di Fassa;
Joachim Koester, il cui corpo scosso dal tarantismo ne fa un Ernesto De Martino prestato all’arte con qualche anno di ritardo. Antropologia e superstizioni anche nel “Museum” sul furto dell’anima di
Florian Schneider; sociologia per
Keren Cytter, autrice di un videopendant narrativo in cui, con un’operazione vetero-pasoliniana, affida alla piatta recitazione di attori presi dalla strada scontati dialoghi su argomenti “tosti”.
L’anima dei luoghi aleggia pure nel Palazzo delle Poste, dove
Barbara Visser evoca la figura del progettista
Angiolo Mazzoni riproducendone il carteggio con
Fortunato Depero, in un’atmosfera più
new age che futurista. Un omaggio alla più lungimirante e visionaria tra le avanguardie storiche, epilogo poco calzante per una mostra timorosa tanto del futuro quanto del presente. Ancorata al passato e alla tradizione, come se l’anima stessa fosse ormai una questione strettamente locale e, in definitiva, trapassata.
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I giudizi che dai sono poco argomentati, spesso gratuiti, anche a causa di una prosa ridondante. quando fai riferimento ad un'opera dai un minimo di descrizione.
Confermo, un percorso too boring, datato e privo di stimoli, privo, soprattutto, di divertimento. E quando l'arte annoia e meglio che se ne stia a casa a dormire.
Confermo la noiosità del tutto, e pensare che ho fatto pure una visita guidata... Risparmiatevi i soldi del biglietto del treno, non ne vale certo la pena! Da amici che lavorano nell'organizzazione ho sentito che ora, per rimpinguare i numeri deludenti, c'è l'ingresso gratuito per i residenti 4 giorni a settimana.