L’estrema tappa di Manifesta 7 sottintende da parte degli spettatori un atto partecipativo completo. Lo sguardo fugace, abituato a correre da un lavoro all’altro, si fa insufficiente. Indispensabile, invece, un atteggiamento di generosa con-partecipazione emozionale, che metta in corrispondenza il tempo e i fatti con il luogo.
Nel sussurrio di voci, racconti, diafani pensieri recitati e diffusi tra le fessure delle pietre secolari, dell’arte cosa resta? L’essenza, probabilmente. Il suo valore comunicativo e meditativo. Una mostra (fuori luogo definirla tale?) che ci “parla” senza farsi “vedere”, lasciandosi immaginare. Su diciotto personalità coinvolte, soltanto sette sono artisti; i restanti sono scrittori, filosofi, romanzieri, storici, poeti e commediografi, chiamati a comporre testi per e all’interno della fortezza, restituendole una voce dopo quasi due secoli di storia e silenzio. Inoltrandoci nei suoi reconditi, una misteriosa babele di parole (italiano, inglese e tedesco le lingue tradotte) avvolge le menti, obbligandoci a sostare in ascolto.
Franzenfeste si presenta come luogo di confine per antonomasia, sospesa tra le montagne, l’acqua e il cielo, a un passo dall’Austria, snodo fondamentale sull’asse del Brennero, luogo di passaggio e smistamento, perimetro chiuso e delimitato, custode leggendario dell’oro della Banca d’Italia prima di essere trafugato dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, fortezza inattaccabile ma mai attaccata, presidio militare fino al 2005, poi concesso in affitto al Comune e finalmente visibile al pubblico.
Le voci che popolano le sale, le feritoie, i corridoi, le prigioni, le scale e i passaggi si nutrono di questo luogo (finemente restaurato) e ne resuscitano i fantasmi. Le mura si raccontano attraverso le parole degli scrittori:
Glen Neath trasmette il torpore nervoso della sentinella nascosta nell’oscurità , lasciando percepire la fatica mista di adrenalina e tensione;
Mladen Dolar incanta gli uditori con una riflessione su due opposte logiche, quella della voce (interiore, evanescente, impalpabile) e della fortezza (esteriore, durevole, immobile). Un dualismo che ritorna nel riferimento alla caverna platonica del testo di
Adriana Cavarero: la fortezza è un “
utero di pietra che protegge dal fuori perché riverberi all’interno il gioco dei suoi suoni”.
La questione del confine, del viaggio, dello spostamento geografico è un ulteriore
fil rouge che accompagna i pensieri.
Shahid Amin racconta le trasmigrazioni delle parole che si mescolano agli idiomi dei paesi ospitanti, generando curiosi
pastiche linguistici;
Margareth Obexer riporta, attraverso un telefono senza fili, le lettere di un’immigrata nigeriana costretta a mentire ai genitori sulla sua reale condizione di prostituta in terra straniera.
Il
Silent Film Programme costituisce una pausa visiva nel cuore del forte: i film di
Haroun Farocki,
Karo Goldt,
Larry Gottheim,
Karl Kels e
Michel Snow ci risucchiano nell’oscurità delle proiezioni e nel silenzio delle pellicole prive di sonoro.
In un percorso che si snoda tra dentro e fuori, tra luce abbagliante e oscuritĂ , gli occhi faticano ad abituarsi al buio, subendo un effetto di continuo spaesamento. Le sedie disegnate da
Martino Gamper per le postazioni sonore, a tre gambe e dalle sedute irregolari, accentuano lo stato di equilibrio precario cui i luoghi conducono. Il catalogo diventa strumento indispensabile per ripercorrere i testi ascoltati e rielaborarne il senso; mentre le foto di
Hélène Binet in apertura restituiscono briciole di spiritualità .
Adam Budak, Anselm Franke, Hila Peleg e il Raqs Media Collective -qui in concerto dopo gli assoli rispettivamente di Rovereto, Trento e Bolzano- propongono a Fortezza una pausa del viaggio, domandando allo spettatore la sua risorsa piĂą preziosa: il tempo.