La mostra curata da Christine Macel ai Giardini e all’Arsenale è una mostra che ha delle buon proposte di artisti giovani e interessanti, nell’insieme fa pensare a delle mostre che sono un po’ classiche per la biennale, in cui si riscontra un aspetto quasi museale. Quello che mi è sembrato più riuscito è lo spazio centrale ai Giardini occupato da questa grande opera in progress di Olafur Eliasson, che mette l’accento su alcune problematiche del nostro momento storico: l’idea della produzione e della migrazione e il fatto che l’economia ha bisogno di spostamenti di persone per sopravvivere, per cambiare. Mi sembra un bel punto di partenza, un luogo dove succede veramente qualcosa. Ovviamente è anche luogo simbolico, perché al centro del padiglione centrale, una metafora di una situazione del mondo dell’arte che si concentra li, credo che sia un bel gesto.
Ogni tanto, però, si cade su alcune situazioni quasi didascaliche, la presenza di artisti quali Agnieszka Polska o Rachel Rose sono interessanti anche per come sviluppano il video all’interno dello spazio espositivo. Altre cose, invece, erano meno urgenti, anche la presenza di artisti di altre generazioni che conosciamo bene, che magari funziona per una lettura della mostra, ma per la Biennale è meglio concentrarsi sulle giovani proposte, o su artisti che sono importanti per il grande pubblico, ma soprattutto per la generazione che può approfittarne di più, togliendo un po’ quell’aspetto museale. L’arsenale mi sembra caratterizzato da questa situazione che riprende un po’ “Magiciens de la Terre”, (la mostra del 1989 al Centre Georges Pompidou e alla Grande Halle del Parc de la Villette n.d.r.), con questa idea dell’arte che viene da tutte le parti del mondo, molto globalizzata. Forse mancano dei punti di vista di situazioni che stanno accadendo adesso, e che potevano essere più presenti. Manca un po’ il racconto di situazioni contemporanee che sono state sviluppate invece in modo efficace al Padiglione Tedesco, che riflette su un’estetica che viene portata da una nuova generazione di artisti con delle opere fredde, molto analitiche che esaminano questo nuovo periodo storico che stiamo vivendo in cui l’influenza di internet e dei social media sta deformando la nostra società. Il Padiglione di Anne Imhof per la Germania è il luogo che rispecchia di più questi cambiamenti attraverso il linguaggio dell’arte, che gioca anche sulla relazione tra spazio architettonico costruito con questo carattere molto severo, secondo lo stile della nuova architettura nazista, in cui la gabbia e i materiali freddi utilizzati contribuisco al senso di esclusione, come fa la stessa performance visibile attraverso le trasparenze del vetro. Accanto a quello tedesco c’è il Padiglione Canada, anche lì c’è un’analisi molto forte del contesto e dell’idea di identità del luogo, è molto bello il lavoro che ha fatto Geoffrey Farmer creando un dialogo tra identità individuale e collettiva dal punto di vista del padiglione. La complessità di rappresentare un’identità nazionale è presente anche nel Padiglione Sudafrica di Candice Breitz che ha fatto un lavoro complesso sui migranti analizzando come il messaggio mediatico viene reso cosmetico e attraete e come si modifica prima di giungere a noi. Altro padiglione che rispecchia l’attenzione sui dati sociali è quello olandese che riguarda la propria storia coloniale, in riferimento anche a tutti i Padiglioni dei Giardini, realizzati all’apice dell’epoca coloniale dell’Europa. Qui Wendelien Van Oldenborgh, nella struttura elegante costruita su progetto di Rietveld nel 54, lega il contenuto sociale che spesso si dimentica con queste architetture moderniste e l’estetica del cinema, tre elementi importati che sono contenuto, contenitore e mezzo, che fanno luce su delle cose che non vediamo più o non vogliamo vedere. È un padiglione molto complicato che tocca un punto molto fragile per la nostra società contemporanea occidentale che è quella del colonialismo, che troppo spesso si cerca di nascondere.
Molti padiglioni hanno proposte interessanti come ad esempio la Svizzera con Carol Bove in legame con l’opera di Giacometti, la Romania di Geta Bratescu, artista riscoperta recentemente, e il Messico di Carlos Amorales. Tornando all’Arsenale, e nello specifico al Padiglione Italia, si nota per la prima volta il tentativo di coinvolgere lo spazio architettonico, senza costruire pareti divisorie o piccoli spazi. I tre artisti invitati hanno l’occasione di concorrere, dopo tanti anni, con gli altri padiglioni nazionali, dove un solo artista si confronta con lo spazio e con la responsabilità di rappresentare un’identità. Quest’anno gli artisti hanno avuto questo approccio con lo spazio molto interessante, soprattutto il lavoro di Giorgio Andreotta Calò è stato eccezionale in questo senso. Un grande passo in avanti per il Padiglione anche se il problema non è completamente risolto, bisognerebbe in realtà essere aperti ad una proposta individuale, nonostante la complessità di rappresentare il proprio Paese nel proprio Paese. La grande contraddizione è che la Biennale, la più importante manifestazione artistica nel suo genere nel mondo, si svolge in un paese che è tra le prime potenze economiche nel mondo, ma che nella lista di paesi che fanno una politica a favore dell’arte contemporanea è decine di posizioni indietro e in cui da decenni sembra non esserci il desiderio di confrontarsi con il resto del Mondo. Si apprezzano dei cambiamenti ma dovrebbero essere molto più forti.
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Ma davvero avete bisogno di un'opera d'arte per riflettere sul migrazionismo dei nostri tempi, sulle sue conseguenze? Ed è veramente compito dell'artista essere così promiscuamente attaccato alla cronaca? Prossime opere tutte ispirate dal tg1?
political correct