Due i temi sul tavolo: da un lato il dibattito sulla situazione dell’arte contemporanea nei musei veneti, dall’altro l’illustrazione delle nuove prospettive offerte dal Patto per l’arte contemporanea, l’accordo stipulato il 27 marzo 2003 tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, le Regioni, le Province e i Comuni.
Ai rappresentanti regionali è toccata un’analisi impietosa: da 50 anni i musei hanno cessato di occuparsi di contemporaneo (eccetto i pochi specializzati) e la responsabilità è anche delle istituzioni regionali e statali che hanno competenza su questo; esiste un problema di cultura del contemporaneo che non riguarda solo il pubblico ma anche i conservatori e i museologi, formati sull’antico e poco sensibili alle nuove espressioni artistiche.
Un’indagine recente ha dato risposte allarmanti: pochissime i musei con una programmazione sul contemporaneo che, quando c’è, si rivolge all’arte storicizzata. La vocazione storica dei musei veneti è quasi uniforme: rarissime collezioni d’arte contemporanea, per lo più frutto di donazioni, con una prevalenza di programmazioni temporanee.
Una situazione paradossale che fa corrispondere all’aumento di interesse del pubblico per l’arte contemporanea, una progressiva latitanza di enti ed istituzioni.
Ma il vero problema, la consapevolezza di ciò di cui si parla, emerge quando i relatori si interrogano sulle possibili risposte alla crisi. Poche idee e poco chiare, con quel Patto che sembra l’unica speranza possibile. La proposta (indecente) di Luca Baldin, direttore della Fondazione Mazzotti che collabora attivamente con la Regione Veneto, è di puntare a documentare il ristretto ambito locale, implicitamente legittimando una controproducente politica di chiusura al confronto con l’esterno.
Per il dirigente regionale Angelo Tabaro non è facile confrontarsi con le espressioni artistiche dell’avanguardia estrema come Mario Merz e l’arte povera (sic e sigh!).
Quando la parola tocca ai responsabili dei centri d’eccellenza, i musei cui si destineranno risorse per la promozione e e il potenziamento delle attività, la situazione migliora di poco.
Comincia Giorgio Cortenova, curatore a Palazzo Forti di Verona, struttura che conta su un’ampiezza pari a Palazzo Grassi e una media di 130.000 visitatori l’anno, attirati dai grandi eventi della Civica scaligera. E andiamoli a scorrere, questi grandi eventi: Fattori, Malevich, Kandinsky, Chagall, Fontana, dall’Oca Bianca, Munch. E i contemporanei? Eccoli: Tulli, Ferrari, Stefanoni, Violetta. Non servono commenti, nell’ultima mostra La creazione ansiosa le lacune vengono a galla, eppure parliamo di un museo che cura le collezioni ed ha un’intensa attività espositiva, che crede nella possibilità di innestare il contemporaneo nel filone storico.
L’ultima battuta di Cortenova la dice lunga: ” non imitiamo Spagna o America e puntiamo sull’identità locale”.
Per Flavia Scotton, di Ca’ Pesaro di Venezia, occorre un piano di potenziamento per restituire a Venezia un museo d’arte contemporanea. Ca’ Pesaro è nata nel 1902 come museo della Biennale ma l’ultima acquisizione è datata 1964 (eccettuato il codone di Oldenburg). Con la crisi della Biennale del ’68 si cominciò ad acquisire dalla Bevilacqua La Masa (assente al convegno per le note beghe interne). Ma oggi non ci sono più soldi per gli acquisti e le risorse sono impegnate nella catalogazione e pubblicazione delle collezioni, un patrimonio di 6000 opere di cui 3000 tra stampe e disegni. Già edito il catalogo dei disegni e delle stampe, è in via di conclusione quello della scultura. Il sogno della Scotton è dichiarato: spostare il Museo Orientale collocato provvisoriamente al 3° piano dal 1926 (!), destinare la struttura all”800 e al ‘900, acquisire Ca’ Corner della regina per l’arte
A Chiara Bertola, curatrice alla Querini Stampalia dal ‘97, la mancanza di un museo d’arte contemporaneo a Venezia non va giù. La Querini, che pure di contemporaneo si occupa, non ha questa vocazione. E sul suo lavoro dice: ” le prossime mostre? Spero che ci saranno, per intanto mi è stato affidata la cura del museo d’arte antica”.
Per Bruno Corà, ex Pecci, è importante riportare l’artista alla centralità che gli è dovuta ed impedire che l’arte scenda a compromessi con lo spazio che la ospita. Il rischio è la devitalizzazione dell’opera e di ostacolare la libertà dell’artista.
Il MAXXI di Roma è il grande museo che tutti aspettano; il direttore Paolo Colombo sembra avere le idee chiare e polemizza con Corà. La centralità spetta all’opera e non all’artista, dobbiamo smetterla di direzionare la fruizione. La condizione ideale è di incappare nell’opera d’arte senza esservi introdotti. Spazi flessibili dunque, in cui il museo trova una sua ragione d’esistere nelle collezioni. La collezione come memoria di accadimenti ed esperienze legate al luogo è la via per salvaguardare l’arte che interviene sugli spazi.
Per l’architetto Francesco Gostoli l’epoca della rivoluzione e delle provocazioni è
La crisi non è dell’architettura ma del museo, dice il direttore della Biennale Bonami, costretto a trasformarsi in attrazione urbana e non in luogo di contenuti. Non dobbiamo deludere lo spettatore che si aspetta, di fronte all’opera, di vivere un’esperienza, di superare una soglia. Le nuove generazioni sono interessate più alla realtà che al passato e questo è un vantaggio che l’America, la cui storia coincide con la modernità, coglie con facilità. Il Italia si fanno i conti con una storia pesante. Un museo d’arte contemporanea deve puntare a trasformare il programma temporaneo in una collezione in fieri, diventando luogo di memoria contemporanea.
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alfredo sigolo
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