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Dal 17 giugno al 20 agosto | L’iconoclastia delle arti dagli anni ’50 ad oggi | Palazzo Bonaguro, Bassano del Grappa (VI) |

di - 1 Agosto 2000

L’idea
Lo spunto ma, diremo meglio, il motore di questa esposizione è la riflessione sull’arte condotta in ambito filosofico da Heidegger ed Hegel e che condusse il secondo a preconizzare l’inesorabile morte dell’arte. Fu Heidegger però che, nelle Lezioni di estetica, riprese criticamente le affermazioni di Hegel e propose l’antidoto di tale pessimistica visione: scomporre i termini del sistema razionale di Hegel che, proprio in virtù del suo essere sistema, consentiva di interpretare in modo troppo lineare e chiaro il suo oggetto, rendendolo superfluo. Qui si inserisce la riflessione del filosofo Messkirch, che impone, in quest’ottica, la decostruzione dell’ontologia anche all’estetica, demolendone i principi che stavano a fondamento della filosofia artistica, fin dalla meditazione platonica. Tale complesso di principi si sintetizza nell’idea e nel concetto di “Tradizione”. Per una via neanche tanto tortuosa siamo così giunti al passo, che dalla sponda della teoria filosofica, mette a quella del pensiero e della prassi artistica. Già da lunga tratta si era consolidata l’opinione che Classicità e Rinascenza avevano raggiunto le vette assolute della rappresentazione del vero e della natura (mimesis) quando prese le mosse (quasi dall’incapacità di riavvicinamento alla misura aurea) il processo di decostruzione dell’arte: è la stagione delle avanguardie storiche che crebbe la trasgressione dei codici coloristici (Fauvismo ed Espressionismo) che spezzò la gabbia prospettica (Cubismo), fino a far fuggire l’immagine stessa, la figura, che vi era custodita (Astrattismo). E, come un lungo autunno, disseccarono le piante annose del classicismo, già mutilate dagli strali vibranti dell’impressionismo. Precipitate le regole classiche, germogliò il seme dell’iconoclastia, dove la figurazione naturale trasfigurò nella figurazione astratta e mentale. Non bastava: c’era ancora da estirpare la radice del concetto stesso di arte. Fu la marcia della società borghese a fornire il pretesto, e quando l’oggetto artistico, e con esso la figura dell’artista, mostrarono evidenti i segni di una naturale attrazione per quel sistema sociale governato dal denaro, fu chiaro che solo attraverso la negazione di se stessa l’arte avrebbe riconquistato la libertà. Il Quadro nero di Malevic può essere, a ragione, considerato la fine dell’idea tradizionale dell’arte e insieme l’inizio di una nuova era: lo spazio nuovo della nuova estetica negativa (meglio anestetica) si popolò dapprima dei ready made di Duchamp (anartista). La strada era spianata, il vaso era aperto: da esso uscirono quasi con furia le istanze per il superamento di ogni barriera o accessorio che impedisse all’arte di manifestarsi nell’esclusivo ambito mentale. La ricerca della massima semplificazione e il superamento delle tecniche e dei supporti tradizionali condussero l’arte a sintetizzarsi a tal punto che cominciò ad attirare in sé, al modo di un buco nero, tutto ciò che all’arte non era mai appartenuto (oggetti di uso comune, poveri, materiali degradabili e di scarto). Restava ancora l’oggetto da scavalcare. Gutai, l’Azionismo viennese, Fluxus, il Situazionismo, furono i movimenti che riuscirono nell’intento di sostituire ai mezzi linguistici tradizionali, il gesto e l’azione come espressione d’arte in sé. L’Arte di comportamento, l’event, la performance consentirono di superare l’idea dell’arte legata alla fisicità dell’oggetto per affermare una nuova arte assoluta che si concentrava nel gesto. Ogni tentativo di resurrezione dell’arte convenzionale (postmodernismo) fu vessato dall’incrudimento dell’agire dei movimenti come il Lettrismo, il Neoismo, la Mail Art, CoBrA e la pratica dei Nomi Collettivi. L’attività artistica si rivestì dei panni della pratica militante, caricata di una nuova funzione rivoluzionaria e di critica sociale nei confronti della mercificazione capitalista. Alla soggettività dell’artista si opposero la collettività (Nomi multipli) o l’assenza del soggetto o l’oggettività assoluta, all’ordine si oppose il disordine e l’abbattimento di qualsiasi diaframma tra arte e vita.

La mostra
“Sentieri interrotti”, con un’espressione mutuata dalle parole di Heidegger, disegna una mappa di tutte le vie tracciate dalla riflessione artistica, sentieri appunto, che non intendono raggiungere alcuna meta, ma piuttosto dimostrano l’atteggiamento nomadico dei movimenti artistici del ’900, con il loro indefesso errare senza origine e senza fine. Perciò i sentieri non conducono da nessuna parte, perché una volta abbattuta un’altra caratteristica tradizionale dell’arte, una volta che l’anti-arte ha liberato un nuovo accesso, essa ha compiuto, in fondo, la sua missione. E come non farsi venire in mente allora il gesto primigenio di Fontana che mostra lo spazio che è oltre la tela?
La mostra bellunese si configura per un allestimento quanto meno inusuale: si va dalle sale del piano terra, con le tele disposte tradizionalmente, alle sale dei piani superiori, con il salone passante occupato dalle violente foto del Secessionismo viennese, con la stanza dei giochi di Luther Blisset, dov’è possibile “rubare” alcuni interessanti gadgets, alla sala dove Fluxus, la Mail Art e gli altri, si trovano a dialogare quasi confusamente all’interno di teche o sui pannelli al muro, in una sorta di horror vacui che porta lo spettatore dall’iniziale sconcerto, ad un divertente gioco di ricerca dell’oggetto curioso, della testimonianza storica, del messaggio nascosto. Foto, documenti, riviste e oggetti finiscono talvolta per sovrapporsi, ma la visione d’insieme del fermento polemico, del dialogo impegnato e della sperimentazione artistica degli ultimi cinquant’anni è perfettamente reso. A questo si aggiungano le due salette destinate alla proiezione di video, dove inconsapevolmente si trascorre una lunga tratta di tempo ad osservare le performance di Fluxus, l’illustrazione di una mostra di Nam June Paik, video storici ed attuali.
E’ difficile descrivere con completezza le opere esposte, si va dalle testimonianze del gruppo CoBrA, il cui espressionismo, che si richiama al Dadaismo, si esprime nella direzione della rivolta contro l’arte e la tecnologia razionale, a quelle di Gutai, primo movimento informale orientale, precursore dell’happening, che mirava a produrre opere senza curarsi degli strumenti per farlo, dalle “azioni”, agli “eventi”, alla pittura vera e propria; sono esposte le opere del Movimento Nucleare, dalla vocazione antiastratta e antinaturalistica ispirata, nelle cosiddette prefigurazioni, al Surrealismo, che interagì con la società proponendo un’interpretazione artistica dell’era nucleare all’insegna di una riappropriazione delle nuove risorse energetiche; del Lettrismo, movimento letterario-artistico anarchico e sovversivo, debitore di Dada e del Surrealismo, che contaminò la pittura e le arti tradizionali con gli strumenti del linguaggio e della parola scritta, all’insegna di una completa e totale fusione delle arti per il raggiungimento di un mezzo di comunicazione universale; di Fluxus, la cui interdisciplinarietà e internazionalismo miravano a liberare la creatività individuale da ogni forma di alienazione borghese; degli artisti che praticarono la Poesia Visuale (tra cui i lettristi e il gruppo Fluxus) e Sonora, che operarono all’insegna, nuovamente, della contaminazione delle diverse forme d’arte. E’ ben rappresentato l’Azionismo viennese, le cui esperienze performative furono tra le più violente, sperimentando i confini tra vita e morte, carne e spirito, sacralità e sacrificio. Troviamo infine le sperimentazioni di Art & Language, la posizione più estremista dell’arte concettuale, che ridusse l’opera d’arte a puro discorso teorico, la produzione della Mail Art, che cercò, inutilmente, lo scavalcamento del condizionamento del mercato con le forme di creatività libere, ludiche ed ironiche di un’arte la cui diffusione era affidata al mezzo postale, e le imprese di Luther Blisset, il misterioso movimento che puntava a destabilizzare la società dei media.
Forse non ci sarà tutta l’arte dell’ultimo cinquantennio, di certo c’è tutta la riflessione artistica, c’è il dibattito e il fervore polemico.

Il catalogo
372 pagine scritte fitte fitte con traduzione in inglese a fronte. 339 illustrazioni di cui 92 a colori, ma non è un catalogo di illustrazione, è soprattutto un testo che raccoglie innumerevoli contributi, alcuni anche confusi, criptici, altri lucidi e geniali: le prime 6 pagine del contributo di Tiziano Santi sono illuminanti. C’è molta critica, ma c’è anche la storiografia artistica, con la descrizione neppure troppo sintetica della vita e della morte dei movimenti presentati, con la ricostruzione del dibattito, le testimonianze dei fatti.

La fine
Insomma una mostra che va soprattutto contro le mode, non presentando le grandi tele astratte, gli accattivanti lavori surrealisti, gli oggetti culto di Duchamp o le fascinose opere pop. Avrebbe forse potuto farlo, ma il comitato scientifico (che annovera anche Harald Szeemann) ha seguito, finalmente, la linea scientifica, privilegiando la coerenza di una scelta teorica ben definita e argomentata. Non mancano le opere “belle”, le tele i Gutai, di CoBrA, quelle del movimento nucleare, perfino due eccezionali assemblati di Nam June Paik, ma è l’idea che paga e l’approccio scientifico.
fino al 18 giugno


“Sentieri interrotti. Crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti dagli anni Cinquanta alla fine del secolo”. Organizzazione Città di Bassano del Grappa, con il patrocinio di Regione Veneto e Fondazione Solomon R. Guggenheim di Venezia. Bassano del Grappa (VI), Palazzo Bonaguro. Informazioni: tel. 0424/523336 o 0424/522235, e-mail: museobas@x-land.it. Dal 17 giugno al 20 agosto. Orari: tutti i giorni dalla 10.00 alle 19.00. Biglietto £ 12.000, ridotto e comitive £ 8.000. Catalogo Charta.

Alfredo Sigolo

[Exibart]

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