Non è certo senza lungimiranza che il Comune di Vicenza usa la strategia di promuovere, in una terra non priva di mezzi economici e il cui patrimonio artistico e architettonico è di forte richiamo turistico, eventi di per sé minori ma che, inseriti in un contesto tanto illustre come la Basilica Palladiana, garantiscono successo a coraggiose opere di rivalutazione di personaggi e correnti poco noti. Scelta impensabile per altre zone, Vicenza rinuncia infatti a blandire i turisti con le solite iniziative espositive ispirate alle mode e alle politiche culturali imposte dai musei più attrezzati e propone invece, al visitatore più attento, riflessioni mirate alla riscoperta di artisti e correnti che, a fronte del loro ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte del XX secolo, sono stati trascurati dalla critica storica e mai studiati da quella contemporanea. Ma le scelte vicentine non sono, c’è da credere, prive anche di una certa tattica che riesce spesso a prevedere le direzioni delle politiche culturali nazionali: così, a memoria, mi vengono alla mente le mostre tenute sul Fronte Nuovo, su Art Club o quella sul collezionismo vicentino, che hanno anticipato le esplorazioni e le indagini dello scorso anno intorno all’arte del ‘900 italiano, specie nel campo editoriale, ma non solo. Ancora nel caso odierno la scelta, a mio parere, non nasce priva di oculatezza, almeno in considerazione di certe vicende del mercato che, in tempi recenti, hanno visto la glorificazione delle opere degli anni venti di De Chirico; in quest’ottica, la riscoperta di Paresce acquista un significato particolare, considerata la reciproca influenza dei due artisti nel campo delle idee e della tecnica pittorica, nel segno metafisico. Il nome di P. è poco noto rispetto al più illustre collega, personalità troppo in bilico tra l’essere artista compiuto, o scienziato o giornalista, troppo lontano dall’idea di appartenere in esclusiva a questo o a quel movimento. Si laureò in Fisica, e lavorò a lungo in questo campo, ma fu anche scrittore e giornalista. Nacque in Svizzera, studiò in Italia. Le sue prime esperienze artistiche si collocano nel periodo fiorentino, quando fu influenzato dai macchiaioli toscani, ma la sua storia pittorica più importante si fa iniziare con il soggiorno parigino, dove nacque il suo grande amore per le vicende tardo impressioniste francesi e per la pittura en plain air. Da Cézanne al cubismo egli sperimentò da autodidatta tutti i registri della nuova pittura, rinnovandola nelle cromie e inaugurando nuovi percorsi metafisici. A Parigi condivise le avventure degli italiani appartenenti all’Ecole de Paris e degli Italiens (Tozzi, De Pisis, De Chirico, Campigli, Savinio e Severini). Dell’Ecole ebbe occasione di ordinare l’esposizione per la XVI Biennale veneziana del 1928. Partecipò alle esposizioni del gruppo Novecento, di cui fecero parte Sironi, Carrà e Funi, e ciò non gli deve aver giovato in termini di considerazione presso la critica della seconda metà del XX secolo che, identificando l’attività del gruppo della Sarfatti con l’ideologia fascista (ricordo un famoso discorso di Mussolini), non riuscì ad analizzare con sufficiente distacco l’arte legata ad un periodo storico che, nel suo procedere, causò ferite troppo profonde per rimarginarsi. Al tramonto del secolo toccò a Crispolti di rileggere e rivalutare le istanze novecentiste all’insegna di “una particolare mozione innovativa … motivata dalla rivendicazione di una possibile centralità moderna della tradizione artistica più tipicamente italiana, in contrapposizione alle precedenti istanze modernistiche di egemonia prevalentemente francese, e tedesca.” Alla somma dei conti, mi pare di poter dire che lo sperimentalismo scientifico di P., dalla tecnica toscana della tradizione macchiaiola e fauvista allo sviluppo di un’originale manualità che si esprimeva attraverso la stesura ossessiva di molteplici velature di colore intrecciate come la trama di un tessuto, fino a raggiungere le tonalità intense di una pittura densa e di grande impatto emotivo, interpretò con successo, specie tra gli anni ’20 e ’30, le istanze di un recupero della tradizione pittorica classica e rinascimentale italiana, che fu resa funzionale all’interpretazione degli ideali per un riscatto dell’arte italiana in senso classicista, in opposizione alle soluzioni futuriste. Forse per l’ultima volta l’arte italiana trovò, in questo conflitto tra due modi diversi di concepire il rinnovamento della storia pittorica nazionale, i motivi per imporsi all’attenzione internazionale quale fonte d’ispirazione e di riflessione autonoma.
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