Ad essere esemplificata, attraverso i 150 selezionatissimi esemplari di lampassi, velluti, sete, ricami, broccati, taffetà, è la storia dell’arte tessile europea tra Rinascimento e industrializzazione ottocentesca e, insieme, la storia delle influenze politiche, economiche e culturali, dei flussi commerciali, delle tradizioni e dei culti in questa area centrale del Mediterraneo.
La grande esposizione vicentina (preceduta da una “anticipazione” proposta due anni fa dal Museo del Duomo di Caltanissetta) è promossa dall’Assessorato alla Cultura – Civici Musei di Vicenza, dalle Regioni Veneto e Sicilia, dalle rispettive Soprintendenze e Diocesi. A curarla è un’ampia commissione scientifica coordinata da Giuseppe Cantelli dell’Università di Siena.
Anche se l’indagine proposta è circoscritta a due sole, anche se importanti, Diocesi siciliane, ad essere evidenziato è quasi mezzo millennio di produzione tessile europea. Primeggia quella spagnola, dalle cui manifatture di Toledo, Granada, Cordoba, Murcia e Valencia, che impegnarono sino ad un milione di addetti, giunsero in Sicilia tessuti preziosissimi ed unici accanto a frettolose imitazioni dei preziosi (e ben più costosi) velluti e damaschi veneziani e genovesi.
Ad essere documentati sono anche cinque secoli di una straordinaria “cultura dell’apparenza” che riunì principi, duchi, marchesi e i loro figli e fratelli “donati alla Chiesa” nei ruoli di abati, commendatari e alto clero.
A loro, genitori e familiari passavano spesso le vesti di gran gala, stoffe sontuosissime e mondane, e a trasformarle in casule, piviali, pianete provvedevano le suore di clausura. Là dove i tagli dei tessuti non si potevano proprio far combaciare venivano in soccorso nastri, decori, passamanerie per dare unità e ancora maggiore sfarzo ed apparenza al nuovo utilizzo delle stoffe.
Anche per questo, le mode secolari si ritrovano puntualmente nelle vesti ecclesiastiche: all’epoca dei motivi ampi, subentra la moda dei motivi minuti, poi esplodono i decori naturalistici e tulipani, camelie, rose e fiori rari desunti dagli erbari di terre lontane vanno a decorare velluti e lampassi degli uomini di chiesa. Non mancano omaggi ai Grandi, come i girasoli che intendevano onorare Luigi XIV, il Re Sole, o simbologie che, spesso, riescono a combinare sacro e profano come nell’iconografia del carro, caro tanto a Santa Rosalia quanto al dio Nettuno.
Fasto su fasto, in epoca barocca, ad arricchire i già rutilanti tessuti provvedono fantasmagoriche aggiunte: coralli, perle vere e false, pietre preziose, granati, lustri, perline di vetro e un profluvio di ricami in filo d’oro e d’argento.
Raffinatezze estreme, paragonabili ai grandi capolavori della pittura e del decoro (non a caso viene fatto il nome di Jen Brueghel II), si ritrovano nella decorazione di alcuni paliotti. Qui l’eleganza formale si esprime grazie all’abilità di chi, da precisi cartoni, sa trarre ricami tra i più belli che si conoscano. Se i tessuti giungevano quasi tutti da fuori (le aree di importazione mutano a seconda del dominio e della influenza commerciale, per cui si passa dall’assoluto monopolio spagnolo ad importazioni dalla Francia, da Genova e da Venezia), i ricami avevano in loco laboratori monastici e conventuali di assoluta eccellenza. I ricami, soprattutto quelli databili tra la fine del Seicento e tutto il Settecento testimoniano una cultura figurativa internazionale, espressa con una qualità di esecuzione che non trova molti equivalenti in Europa. Il fasto delle vesti ecclesiastiche perdura anche quando la società civile adotta toni più sobri. A tenere in vita modelli che via via divengono appannaggio solo del Sacro sono i laboratori di conventi e monasteri che, gradualmente, giungono a stratificare modelli e modalità che perdurano, sostanzialmente immutati, sino a tempi recenti.
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