“I miei disegni non sono lavori in margine all’opera letteraria. Sono campi di battaglia, disegnati e dipinti, dove si svolgono la mia lotta con la letteratura, le mie avventure, gli esperimenti e le sconfitte”. Basta una frase a Friedrich Dürrenmatt per cancellare il mito dello scrittore di thriller, dell’uomo di lettere, e riavvicinarsi alla dimensione caotica in cui la creatività non ha ancora preso forma, e preme per uscire. “Un campo di battaglia”: un modo d’intendere il disegno che non può non ricordare quello di un altro artista che, come Dürrennmatt, passò alla storia per i suoi scritti, ma realizzò non meno interessanti opere grafiche: Antonin Artaud. Viene addirittura il sospetto che Dürrennmatt abbia continuato tutta la vita a disegnare, proseguendo la sua prima passione infantile, perché proprio nel disegno poteva prendersi quelle libertà che lo stile asciutto della frase, la ricerca della parola scorrevole, proibiscono. È una sua confessione: “disegnare è ritornare alla mia infanzia, sempre. È l’unico mezzo per ritrovare i poteri creativi dei primi anni di vita. Io dipingo come un bambino. Ma non penso come un bambino. Dipingo per la stessa ragione per cui scrivo: perché penso”.
E sono proprio i miti dell’universo infantile ad uscire nella pratica del disegno, valendosi di nuovi significati dovuti al pensiero maturo: Teseo, il Minotauro, la Pizia, Re Mida, le favole che il padre gli raccontava da piccolo. Quando “i campi di grano e le gallerie sull’aia delle case dei contadini si trasformavano in un labirinto”. Il labirinto è uno dei motivi disegnati con più interesse da Dürrennmatt, nella sua commovente e personalissima serie La Ballata del Minotauro. Il labirinto è l’immagine del mondo incomprensibile, retto da logiche ignote, da cui è impossibile
Ne è un esempio la serie di disegni preparatori per Achterloo, la sua ultima opera teatrale. Disegni che, più che schizzi di studio, sembrano quasi la proiezione di un teatro irrealizzabile, possibile solo nella fantasia. Al labirinto di specchi subentra lo spazio del tutto equivalente del manicomio. Ognuno dei suoi personaggi ha tre identità: quella reale di malato di mente, quella immaginata, e quella terapeutica. Così, in una sorta di gioco che incrocia la caricatura satirica di George Grosz, una linearità elegante e istintiva, e uno spirito da grand guignol, Dürrennmatt si diverte a schizzare a pennarello malati travestiti da Freud, da Jung, da Marx, da Napoleone o Buchner, dentisti folli con enormi dentiere, Giovanna D’Arco travestite da Salomé, e scene di follia totale in cui tutti i personaggi volano nello spazio o brulicano come in un dipinto fiammingo.
Una caso a parte sono i numerosissimi disegni di viaggio, realizzati durante le visite ai luoghi della Grecia antica. Similmente ad Artaud nel descrivere della terra dei Tarahumara, Dürrennmatt vede nel paesaggio presenze vive: le montagne, descritte con tratto sintetico ed efficace, diventano volti enormi e favolosi, gli alberi demoni danzanti, e così via. Un’eruzione di carica vitale sta alla base di tutti i disegni. Una forza che appare frustrata nel tentativo di venire a capo di un senso complessivo, di un ordine. Non a caso, il bell’allestimento scelto da Mario Botta riprende l’idea del labirinto di specchi, sospendendo tutti i disegni secondo un ordine più drammatico che logico.
“Per quanto si indaghi sull’io”, annotò Dürrennmatt nel 1980, come toccando il culmine del proprio pensiero, “al fondo di tutte le risposte possibili rimane un residuo che sfugge a qualsiasi risposta”. Proprio quanto dice Tiresia, in uno dei disegni dedicati alla Pizia: alla domanda che cosa significhi tutto ciò, rispose, non senza amarezza: “la verità esiste solo se la lasciamo in pace”.
andrea liuzza
mostra visitata il 22 giugno 2006
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