Vista dal satellite la superficie terrestre appare uniforme, densamente sfumata nei blu e nei verdi di mari e montagne, serena e vitale. Il migliore dei mondi possibili. Avvicinando lo sguardo, individuando e nominando i luoghi, divisi da confini talvolta immaginari, se ne recuperano però le profonde diversità e fratture. Differenze geografiche e morfologiche che sottendono ampie differenze sociali, storiche, economiche.
Joyce Kozloff (Sommerville, New Jersey, 1942) espone allo Spazio Thetis di Venezia, in collaborazione con la Galleria Michela Rizzo -per la sua prima personale in Europa- le sue topografie del dolore, una zoomata schietta e priva di ipocrisia nei luoghi del mondo prima violentati e offesi e poi dimenticati.
I due progetti che la mostra veneziana accosta, pur nascendo in momenti distinti, presentano elementi comuni, tipici del percorso decennale di analisi geo-politica e di relativa denuncia sociale della Kozloff. Progetti che dichiaratamente rimandano, per tecnica di realizzazione, al movimento Pattern and Decoration della quale l’artista è stata fin dal 1970, con Alan Shields e Miriam Schapirowere, fondatrice ed elemento di spicco.
Al centro della sala Targets (Roma, 2000) il grande globo di legno, composto da 24 sezioni e del diametro di tre metri nel quale i visitatori sono invitati ad entrare, riporta sulla superficie convessa interna, come un grande mappamondo al negativo, le carte topografiche dettagliate dei luoghi che gli Stati Uniti d’America hanno bombardato. Dal 1945 ai giorni nostri. Nell’esiguo spazio dipinto si ricrea così un rapporto individuale e strettamente biunivoco con la nostra storia recente, narrata silenziosamente dalle rughe del pianeta, privati della possibilità di guardare altrove o di guadagnare agilmente l’uscita perché letteralmente circondati. L’artista, spiega, realizza il progetto “contro la superficialità con la quale i media parlano dell’uccisione dei civili nelle ultime guerre”.
Voyages, espressamente progettato per questo spazio, è un percorso conoscitivo –un viaggio di ricerca- delle culture con le quali l’uomo occidentale è venuto in contatto durante le campagne di espansione coloniale verso ovest. Una serie di grandi pannelli di stoffa accolgono colorati collage nei quali simboli meso e sudamericani, orientali e mediorientali si mischiano caoticamente tra loro, sovrapponendosi, per riscoprirsi molto spesso simili. Alternate ai pannelli, una teoria isocefala di maschere veneziane di gesso, sottratte al candore del loro anonimato dal pennello dell’artista, che le decora con particolari cartografici sempre differenti, rendendole uniche. Completano l’allestimento, appese al soffitto, le xilografie su carta giapponese di due isole hawaiane, oggi simbolo spensierato vacanziero ma in passato triste luogo di bombardamenti statunitensi. Ogni carta geografica è prima di tutto una carta sociale: un patchwork in progress composto da aree della gioia e aree del dolore, aree della speranza e aree della rassegnazione, della costruzione e della distruzione, in un reticolo topografico in cui le coordinate date da ricchezza e povertà sostituiscono quelle indicate da meridiani e paralleli.
gaetano salerno
mostra visitata il 10 ottobre 2006
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