Nell’America del XVIII secolo non c’era spazio per le arti, ritenute superflue “bagatelle” e guardate con sospetto dalla classe dirigente. Per lungo tempo, la cultura fu per gli americani qualcosa di inevitabilmente europeo e la “guerra” d’indipendenza dell’arte americana fu destinata a durare ben più a lungo di quella per l’emancipazione politica. Alla Peggy Guggenheim Collection una mostra si sofferma su questo percorso, attraverso opere della Addison Gallery of American Art.
La questione della necessità di costituire un’identità artistica americana nasce intorno agli anni ‘40 del XIX secolo e si traduce, per gli artisti della Hudson River School, nell’esortazione a prendere ispirazione direttamente dagli scenari della propria terra. Le grandi praterie e gli spazi incontaminati offrivano soggetti originali e ancora inesplorati allo sguardo, ben lontani dai paesaggi addomesticati e innocui del Vecchio continente.
È soprattutto nei quadri di
George Inness che la natura si rivela in tutta la sua forza, facendosi pura emozione. Lungo questa linea, si affermeranno i tratti più ruvidi della pittura di
Winslow Homer, come in
Cambio della guardia e nel
Vento dell’ovest, espressione di quel carattere “virile” della pittura americana, esaltato dalla critica statunitense di fine secolo, in contrapposizione alla “femminilità” d’oltreoceano.
Ma è attorno agli anni ‘10 del nuovo secolo che l’arte americana inizia a ridurre davvero il gap nei confronti di quella europea, conoscendo, assimilando e partecipando direttamente alla scena artistica contemporanea. Grazie alla Galleria 291 di
Alfred Stiegliz, New York si apre alla conoscenza delle opere del modernismo, qualche anno in anticipo rispetto all’evento epocale dell’Armory Show che, nel 1913, metterà in contatto pubblico e collezionisti americani con gli sviluppi più innovativi dell’arte europea. La griglia cubista, l’astrazione di de Stijl, la libertà del colore di
Matisse verranno rapidamente assimilati e lasceranno un segno nell’arte americana, arrivando a fondersi con i caratteri autoctoni già presenti, come il realismo della scuola di
Robert Henri, nelle rarefatte geometrie cittadine di
Manhattan Bridge Loop di
Edward Hopper o in quelle più dinamiche delle architetture industriali della
Ballardvale di
Charles Scheeler.
Nelle ultime sale, la linea di sviluppo cronologico tracciata dalla mostra sembra perdere di coesione. L’intersecarsi di produzioni di periodi diversi e di artisti di provenienze eterogenee, anche extra-americane, rappresentano un terreno di coltura difficilmente definibile come “americano”, ma comunque fondamentale alla crescita degli artisti che porteranno gli Stati Uniti al centro della scena artistica mondiale. In chiusura, il trionfo dell’arte americana è rappresentato da quello che, nonostante le eclatanti assenze di
Barnett Newman,
Marc Rothko e
Bob Rauschemberg, appare come il gotha dell’arte degli anni ‘50, dalle sculture di
Calder e
David Smith ai dipinti di
Pollock e
Frank Stella.