Molto della vita di Vittore Carpaccio, pittore veneziano, resta un mistero. Non se ne conosce la data di nascita, dubbio se avesse o meno aiuti per la realizzazione dei suoi dipinti, incerta la data della sua morte. Si sa che “Maistro Vector dicto Scarpazha”, che latinizzerà poi il cognome poco prestigioso in “Carpathio”, nei primi anni del Cinquecento collabora con Giovanni Bellini nella Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale a Venezia e viene incaricato nel 1508 di stabilire il prezzo degli affreschi di Giorgione sulla facciata del Fondaco dei Tedeschi. Restano le sue opere, compendio della cultura europea tra Quattrocento e Cinquecento nutrita di Pisanello, Piero della Francesca, Antonello da Messina e delle innovazioni dei fiamminghi. Sono straordinari cicli narrativi, “teleri”, eseguiti su tela per scongiurare i problemi di deterioramento a causa dell’umidità che a Venezia mina gli affreschi, realizzati per le Scuole della Serenissima, associazioni di arti e mestieri, comunità di cittadini stranieri o istituzioni laiche di devozione.
La mostra riunisce i sei episodi con le Storie della Vergine realizzati intorno al 1504 per la Scuola degli Albanesi (oggi disperse tra Brera, Accademia Carrara di Bergamo, Museo Correr e Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro) e due delle quattro tele delle Storie della vita di Santo Stefano (1511-1520), la Lapidazione proveniente dalla Staatgallerie di Stoccarda e la Predica dal Louvre, mentre per gli esemplari conservati rispettivamente allo Staatliche Museum di Berlino e alla Pinacoteca di Brera, il cui stato di conservazione non ha reso possibile il prestito, si è proceduto a riproduzioni in scala. La mostra è inoltre occasione per ammirare le opere presenti stabilmente alle Gallerie dell’Accademia, come Il miracolo dell’ossesso realizzato per la Scuola di San Giovanni Evangelista, uno straordinario ritratto di città. Testimonianza dell’aspetto urbanistico di Venezia nel Quattrocento, con il ponte di Rialto in legno, è anche uno spaccato di vita cittadina, con il brulichio di gondolieri, mercanti veneziani e orientali, nobili in veste nera e rossa, garzoni con botti di vino, muratori, donne sulle altane e ritratti di contemporanei del pittore, ad attestare la “veridicità” dell’evento.
Le scene con le Storie di Sant’Orsola, commissionate nel 1490, riprendono una leggenda, popolare nell’Europa medioevale, che diviene pretesto per ambientare in un tempo remoto e in luoghi lontani costumi, tradizioni, cerimoniali e atmosfera della Serenissima tardoquattrocentesca. Abile orchestratore, Carpaccio organizza in un unico telero episodi che si svolgono in tempi e luoghi differenti, secondo un procedimento tipico degli arazzi franco-fiamminghi. Il racconto si snoda ritmicamente da un telero all’altro coinvolgendo lo spettatore nelle storie di Orsola e delle “undicimila vergini” sue compagne drammaticamente massacrate dagli Unni a Colonia.
Carpaccio non ha mai viaggiato. Assembla luoghi reali e luoghi immaginati, moschee e minareti a edifici veneziani servendosi di stampe come fossero appunti di viaggio. Usa spesso, per firmare le sue invenzioni, il termine “finxit” invece di “pinxit”. Gli animali che prendono parte alle scene sono sempre portatori di simbolismi, come il coniglio bianco che rimanda alla fecondità virginale, il daino dalle corna palmate all’aspirazione religiosa, il falco alle virtù guerriere. Occupano il palcoscenico dell’azione drammatica insieme alla folla multicolore e varia, alla moltitudine di costumi diversi, copricapi greci, turbanti mediorientali, veli, segno di una feconda convivenza dei “diversi” che Venezia, porta d’Oriente, sperimentava da tempo.
Il viaggio nell’universo carpaccesco non si ferma qui. Continua al Museo Correr dove il Ritratto d’uomo dal berretto rosso e Le Dame, a lungo credute Cortigiane ci danno prova del talento ritrattistico del pittore, autore anche del vivace e brillante ciclo dedicato ai santi patroni Gerolamo, Giorgio e Trifone alla Scuola di S.Giorgio degli Schiavoni.
myriam zerbi
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