Non una semplice retrospettiva, la monografica dedicata dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, negli splendidi spazi da poco restaurati, a
Giuseppe Santomaso (Venezia, 1907-1990), figura di spicco del panorama artistico novecentesco. Piuttosto è l’occasione per rileggere il XX secolo attraverso l’opera di chi ne è stato, attraverso varie declinazioni avanguardistiche, un fedele interprete.
La figura di Santomaso appare così: frastagliata e mutevole ma coerente, pervasa da costanti parabole linguistiche, che mai prescindono però da una certa dose di classicismo nostrano (anche in quella fase del secolo affetta da esterofilia) e provincialismo (“
la cultura veneziana che ha scoperto l’importanza di distruggere le forme per ricostruirle con il colore”) garanzia di lirismo espressivo, preservando da facili debordate post-moderne un linguaggio quotidianamente fresco.
Fin dagli esordi, quando la forma è ancora protagonista (
Spiaggia, 1935;
Paesaggio, 1938), dopo il ‘37 e le significative esperienze in Olanda e a Parigi che lo condurranno a una prima, non ancora radicale evoluzione segnica di respiro europeo, il colore è elemento narrante di una natura fenomenica “
pretesto visivo” (la serie delle
Finestre dei tardi anni ’40), risolta sempre più in piani cromatici.
Numerose le opere esposte, molte giunte da collezioni private. Lungo il percorso, l’artista dialoga con
Scarpa,
Guttuso,
Morandi,
Hartung,
Winter,
Afro,
Vedova,
Tancredi.
Un’intera sezione è dedicata alle opere grafiche, dalla collezione Intesa San Paolo, alle quali si dedica con impegno dal 1955.
A un certo punto, la storia del secolo lo dice, la rinuncia a valori stabiliti più che opzione sembra necessità, contro un
ritorno all’ordine ormai anacronistico. Santomaso vive la svolta informale degli anni ’50. Con il Gruppo degli Otto svincola il colore da qualsivoglia intento accessorio, verso spiritualità astrali (
Dalla parte della meridiana, 1956;
Ritmo verticale, 1958) oltre che astratte.
Peschereccio (1951),
Strutture nella nebbia (1952),
Cantiere in laguna (1953),
Il muro del pescatore (1954) riconducono gli oggetti a segni primordiali intuibili e intimi -la lezione di Lionello Venturi, avverso a perseguire le mere geometrie-, all’
eterno ritorno che è memoria (
Ricordo verde, 1953;
Il muro del ricordo, 1964) di luoghi (
Palude in grigio-verde, 1958) e sentimenti (le grandi tele degli anni ’60:
Frammento,
Racconto,
Il Nido,
Incontro all’alba).
Per un decennio poi monocromi minimalisti controbilanciati dai pochi colori “sparsi” a macchia, seguendo i percorsi di
Guidi,
Manzoni,
Finzi, sino a
Fontana:
Spazio blu e
Separazione azzurra del 1967,
Rosso e nero,
I Cardini,
La porta bianca,
Bianco e nero, tutti dei primi anni ’70. Senza scordare il passato, rendendo
Omaggio al crocefisso di Cimabue (1972), ovverosia a quel guizzo duecentesco che ha reso moderna la nostra pittura o agli immutabili volumi dei candidi marmi rinascimentali del canale della Giudecca (la serie delle
Lettere a Palladio del 1977).
Per chiudere il cerchio, le tele dei tardi anni ’80 (
Barena,
L’amante del doge,
Madonna dell’Orto,
Spazio del desiderio), dove il colore rosso e ocra è amore carnale per la
città-astratta che nel lungo viaggio del Novecento non ha mai abbandonato.