I celeberrimi versi di Lorenzo il Magnifico, “
Quant’è bella giovinezza…” affiorano alla memoria girando per le sale di Palazzo Roverella alla mostra sulla Belle Époque. Una mostra che restituisce il sapore dolce-amaro di una primavera sbocciata in anticipo ma tramutatasi troppo presto in autunno, senza passare per l’estate.
I quarant’anni che vanno dal 1880 alla Grande Guerra sono stati, per l’Occidente, come la prima età dell’uomo. Spensierata, fiduciosa, rutilante di energia e febbre di crescita. Le scoperte della medicina e della tecnologia, l’espansione economica e industriale, un benessere sempre più diffuso determinava un’incrollabile fede nel progresso e lasciava intravedere traguardi ambiziosi, insieme alla sensazione dell’onnipotenza possibile dell’uomo, cui nulla era precluso e negato.
Quanto tutto ciò fosse utopia, e come il sogno di felicità immortale fosse destinato a infrangersi presto, lo dimostra -prima dell’affondamento del Titanic nel 1912, con cui di fatto colarono a picco- l’altra faccia della medaglia. Quella fatta di crescenti tensioni sociali, incidenti nelle fabbriche, scioperi generali, ma anche decadenza di costumi, lassismo, utilizzo di morfina e oppio tra i borghesi, arricchiti troppo in fretta e tutto sommato timorosi di godersi veramente la vita.
La mostra di Rovigo punta con 130 opere e manifesti sul lato solare di quegli anni, sulle feste, sui teatri, sui cabaret, sulle corse a cavallo nei parchi, sugli incontri nei caffé ricolmi di ogni grazia di Dio di una società in perenne orgasmo euforico. In mezzo lei, la donna, regina assoluta del bel mondo. Ora figuretta eterea (
Amedeo Bocchi,
Fior di Loto), ora demone erotico (
Camillo Innocenti,
La sultana), ora spavalda e sbarazzina (
Mondanità di
Bonzagni), ora mondana sull’orlo della perdizione (
Corcos,
La morfinomane).
Sempre meno angeli del focolare e sempre più animatrici di vita, queste donne saranno di lì a poco destinate a trasformarsi nelle perverse maschiette dei Roaring Twenties, del Charleston e dei fumosi retrobottega del proibizionismo, esseri votanti e pensanti tanto quanto -forse più- di un maschio la cui crisi viene da questo momento, ineluttabilmente decretata con una condanna scritta a lettere di sangue.
L’oro e le perle di cui si ricoprono, però, è già offuscato, come un bella scorza che cela la parte marcia. Poco contano le camicette di
voile di
Giovanni Boldini, i trionfalismi (
La femme) di
Giacomo Grosso, i veli azzurri di
Glauco Cambon e lo sfavillio delle signore che prendono il te nell’
Atelier del pittore di
Mario Cavaglieri.
Dietro il pallore malaticcio e languido della
Margherita Gautier di
Eugenio Scomparini sta già lavorando il verme della decomposizione, evocato dai compiacimenti macabri di
Emilio Praga e di
Olindo Guerrini, che ricalcano il sonetto
Remords posthume dedicato da Baudelaire all’amata-odiata Jeanne Duval.
E dietro i colori sgargianti e il sorriso invitante della procace signorina che
Leonetto Cappiello immortala nel manifesto pubblicitario dell’assenzio Gempp (1903), leggiamo un brano della
Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth: “
Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute”. È la sinistra ombra della guerra, che si profila all’orizzonte. La musica e le risa a breve taceranno, sovrastate dal cupo rombo del cannone.