Talvolta la verginità di pensiero è un buon approccio per il visitatore di una mostra, com’è il caso della personale veneziana di
Gregor Schneider (Rheydt, 1969). Basta dimenticare le polemiche prima e durante la Biennale del 2005, l’idea della
Ka’ba e quant’altro, per lasciar spazio all’esperienza individuale: si è così accolti dal portone della Bevilacqua La Masa, dipinto di nero, che prelude ed enuncia la successiva completa oscurità.
Si entra infatti in un budello in cui è letteralmente impossibile vedere, e i rumori -a cominciare da quello dei nostri passi o della nostra voce- sono attutiti fino quasi al silenzio. È uno spazio in cui mancano i riferimenti cartesiani cui siamo quotidianamente abituati, al punto di essere costretti a misurare i movimenti con le mani alle pareti, chiusi in una vagina buia a metà strada tra accogliente spazio fetale e claustrofobico contenitore di vuoto filosofico, in bilico tra curiosità e primordiale paura del buio. Poi, come un brutto sogno da cui usciamo accendendo un’
abat-jour, ecco una luce flebile che annuncia il ritorno a un luogo in cui si può esercitare la facoltà della vista.
Potrebbe finire qui la mostra, in maniera inaspettata, decisa, asciutta, provocatoria. Un’esperienza forte, una magistrale e teatrale
Gesamtkunstwerk, da esperire tutta d’un fiato, lasciando poi a visitatori e critici il senso del vuoto unito allo smarrimento, con lo stile raffinatissimo con cui Schneider ci ha abituati sin dalla
Haus Ur (e che gli è valso, pur giovanissimo, il Leone d’Oro alle Biennale del 2001).
Ciò che segue è infatti la documentazione dell’arcinoto e irrealizzato progetto
Cube Venice, con tanto di
maquette e foto, unito a un video che ne testimonia, in visione notturna, l’effettiva realizzazione a Berlino.
La sensazione è quella di una grande caduta emozionale, un climax discendente che fa torto a una
ouverture così strepitosa. La tensione declina verso un didascalico
déjà-vu che racconta il lavoro preparatorio fatto dall’artista sul cubo nero, unito alle risapute difficoltà di portare a compimento il progetto, la cui realizzazione -per timore di atti di terrorismo- non venne mai presa in considerazione da parte del vecchio sindaco lagunare e nemmeno da quello attuale (come riferisce curiosamente nel testo in catalogo la curatrice Angela Vettese).
Di interesse l’ultima sezione della mostra, che presenta alcune delle foto di ambienti e di opere di grande dimensione di Schneider, e soprattutto alcuni dei suoi video più interessanti, tra cui quello, assolutamente da vedere, della passeggiata al buio nei sotterranei della Fondazione Morra Greco.