La collocazione di opere moderne in ambienti densi di storia e fortemente caratterizzati risulta spesso problematica, e va riconosciuto particolare merito all’istituzione veneziana che da qualche anno sta portando avanti un progetto di commistione tra passato e produzione artistica contemporanea. Il progetto pensato per l’estate (che vanta a corredo della mostra due cataloghi con saggi di rilievo) ha messo a confronto il lavoro di due artiste che operano proprio nella città lagunare, il cui lavoro è caratterizzato da procedure molto differenti.
È una stanza buia ad accogliere lo spettatore nell’installazione audio di
Mariateresa Sartori (Venezia, 1961), che fa recitare a lettori di lingua differente brani scelti di poesia (o altri testi) del proprio Paese, sui quali l’artista è intervenuta mischiando le sillabe, creando anagrammi, inversioni, folli e privi di senso logico. Nonostante il grado di destrutturazione linguistica sia elevato, spesso la non conoscenza di una specifica lingua induce ad avvertirli come credibili, quasi fossero
gramelot postmoderni. Paiono così assolutamente
sensate le considerazioni di Borges (citato da Marina Nespor in catalogo): “
Ho avuto molto spesso il sospetto che il significato sia qualcosa aggiunto al verso. Sono sicuro che noi sentiamo la bellezza di una poesia prima di cominciare a pensare al suo significato”. È questo infatti cui è condotto il visitatore, a sentire la fascinazione di un universo linguistico senza conoscerlo, per certi aspetti vittima dell’incompiutezza delle informazioni possedute.
In una delle sale della biblioteca, le tracce audio sono invece riprodotte da lettori mp3 collocati in finti libroni dotati di cuffie, e costringono a un ascolto solitario e isolato, non molto diverso da quello dei ragazzi nei metrò con l’
I-pod alle orecchie. L’impatto, pur visivamente gradevole, risulta però così annacquato, venendo meno una delle suggestioni più cariche, quella della babele di lingue parlate.
Di altro approccio le opere di
Maria Morganti (Milano, 1965; vive a Venezia), che si è concentrata su un approccio procedurale, realizzando un vero e proprio
diario cromatico delle ripetute visite alla pinacoteca della Fondazione, avvenute nel corso del biennio 2006-07. L’artista si è concentrata su cinque sale, delle quali a ogni visita ha registrato il colore su tela sovrapponendolo al precedente, in maniera tale che i pigmenti si sommassero ai precedenti. Le tele, collocate in serie nelle sale in sovrapporta, si caratterizzano per i lembi in vari colori, a testimonianza della successione di monocromi stesi.
Ma, inevitabilmente, la monocromia risulta ai giorni nostri di scarso interesse, se non per le militanze di artisti di antica data. La procedura
diaristica adottata da Sartori, pur apprezzabile, sembra più che altro un tentativo di rianimare una pratica ormai defunta e non lontana da scadere nella decorazione. Mentre non sarebbe dispiaciuto un’evoluzione in senso più libero e personale.