Somewhen è un neologismo, l’
altro-luogo esatto in cui la fotografia, elevata a puro concetto, sopravvive.
Somewhen è la liberazione dell’immagine dalla contingenza, accettandone la natura piatta e immobile; vincolare il soggetto all’attimo, sottraendogli la vita, come farebbe un quadro. In qualche luogo e in qualche istante (
some-where/-when) il tempo si dilata, assemblando e ri-componendo il ritmo di uno spazio e della sua morfologia.
La collettiva alla Jarach Gallery di Venezia scruta, attraverso gli sguardi di fotografi di fama internazionale alternati a quelli di giovani emergenti, le intersezioni fra architettura e natura e la transitorietà dell’uomo infiltrato nel territorio. Ma
Somewhen è anche il fattore spazio-temporale che introduce la variabile – insita in ogni scatto – che lo status quo delle cose cambi drasticamente, si ribelli all’ordine apparente ed estemporaneo conferito dal momento. Solo proiettando nitidamente le immagini nel tempo queste diventano certe, databili, tra un prima e un dopo storico che induce speculazioni maggiormente intellettuali.
Nei lavori di
Gabriele Basilico (già visti in occasione della passata Biennale di Venezia) e di
Robert Polidori la brutalità dell’uomo e della natura segnano i luoghi – li modificano – in Libano (i bombardamenti di Beirut nel 1991) come a New Orleans (l’uragano Katrina del 2005). Il fotografo c’era, l’immagine ci sarà; ribadendo che tutto è effimero, a eccezione della fotografia.
Ogni luogo è memoria, dicono gli scatti di
Guido Guidi, che ritraggono ambienti nei quali il tempo, anche dilatato a dismisura, sospende la dimensione passata. Il dittico di
Martina Della Valle mostra una casa diroccata (
Urban Impressions) e una parete della stessa, sulla quale è ancora presente – parzialmente distaccato – un affresco a testimonianza di un percorso esistenziale in dissolvimento.
Il fotografo arriva nel racconto un attimo dopo, a giochi fatti, o un attimo prima, sfalsandone la diacronia. Lo scatto è allora sinonimo d’intuizione.
Edward Burtynsky ferma il tempo sul grande fiume Yangtze nel 2002, poco prima che il governo cinese inizi i lavori della gigantesca diga delle Tre gole, violando irreversibilmente il paesaggio. Così come gli scatti di
Primoz Bizjak (il cantiere notturno e spettrale di un edificio madrileno forse abbandonato, con le inquietanti mura scheletriche a chiudere gli sguardi), di
Teodoro Lupo (progetto
Staubfilm, immagini di negozi berlinesi ripresi nelle fasi transitorie di nuovi allestimenti) e di
Andrea Botto (
Tutto in una notte, una porzione di campagna padana che presto diventerà cantiere e poi area edificata diffusa), testimonianze di cambiamento, in uno stato incerto e metamorfico dinamicamente proteso verso ciò che ora è solo presagibile.
Sembriamo così tragicamente indifferenti anche all’inquietudine del presente, alla contemporaneità delle centrali nucleari di
Jürgen Nefzger che sovrastano minacciose una natura incontaminata solo in superficie, all’effetto serra che oggi non turba i pacifici villaggi innevati della Groenlandia ritratti da
Joël Tettamanti, ma che presto ne travierà senza rimorso l’aspetto.
La presenza umana – in potenza o in atto – è sempre invasiva.
Somewhen qualcuno guarda per farci vedere e per non farcelo dimenticare.
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mah...