Zoran Music (1909-2005), è scomparso il 25 maggio del 2005, e puntuale, dopo un anno, arriva l’iniziativa del Centro Sloveno di Venezia, che gli dedica una piccola ma intensa mostra, con una cinquantina di opere, gran parte inedite. Gli oli, le tempere e i disegni, esposti su due piani, ripercorrono tutto il suo ciclo pittorico, dai nudi ai cavallini, dagli autoritratti ai paesaggi rocciosi, dai ritratti della compagna e pittrice Ida Barberigo, fino alle donne con asinelli in totale assenza di prospettiva, a ricordare una pittura bizantina, di casa a Venezia. C’è anche una parte della tragica serie Noi non siamo gli ultimi, che manifesta una barbarie vissuta: la permanenza, dall’ottobre del 1944 al 1945, nel campo di concentramento di Dachau. Da quell’esperienza, durata sette mesi, Music riesce a riportare una serie di schizzi e appunti che userà negli anni Settanta per dar vita al ciclo, qui esposto, che funge da testimonianza della tragedia. Forse tutta l’opera parte da una domanda (Cosa mi è successo?) e anche dalla domanda di spaesamento geografico ed esistenziale che lo attraverserà, negli ultimi anni della sua vita, quando nel suo andirivieni tra Venezia e Parigi, chiedeva Sono a Venezia o a Parigi?.
Le risposte sono nella sua pittura, sui fogli di carta e sulle sue tele, in cui ferma la propria identità e in cui ritorna per guardarsi e rilevare i propri cambiamenti. La temporalità è il motore della sua arte e il Carso, dove ha vissuto l’infanzia, è la matrice formale del suo fare. Quando torna da Dachau e dipinge le colline e il paesaggio senese (Paesaggio senese, 1949; Colline senesi, 1951), lo fa perché esse gli ricordano i corpi nudi accatastati nel campo di concentramento, ma anche il paesaggio carsico. La scarna nudità del paesaggio è la stessa della magrezza dei corpi senza carne che aveva visto e che non dimenticherà. Un pastello, presente in mostra, che si lega a queste immagini senesi in modo impressionante, è Noi non siamo gli ultimi del 1987, dove è rappresentata una collina di cadaveri. Se il tempo gli permette di appropriarsi del frammento esistenziale, che diventa rappresentazione tragica della vita, il volto è il luogo di un paesaggio che registra la sofferenza umana. Noi non siamo gli ultimi (1974) né è una triste conferma.
Anche gli autoritratti e i ritratti di Ida (dagli sguardi fissi nel vuoto), che si susseguiranno numerosi dagli anni Ottanta fino agli ultimi mesi della sua vita, diventano una sorta di esercizio al quale non poteva rinunciare. I volti dovevano guardare dalla Storia. L’assenza di prospettiva e il richiamo a una pittura senza connotazioni spaziali, come quella bizantina ed etrusca, carica la figura umana di una tale forza spirituale da trasmetterci inquietudine e solitudine esistenziale (Doppio ritratto, 1989).
Sono presenti anche due versioni di San Marco: una del 1943, Interno di cattedrale, in cui Music, con un tratto netto e luminoso, riprende lo spazio interno della chiesa; e San Marco, del 1982, dove i colori della facciata sono guidati da una luce che solo Venezia riesce a sfoggiare in particolari momenti della giornata.
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