Arte e scienza tornano a essere discipline complementari, speculazioni empiriche della medesima realtà, nel centro veneto che fin dal 1222 (anno di fondazione dell’università, terza in Italia per anzianità) è stato motore del progresso intellettuale europeo.
A Padova giunge nel 1592, per insegnare meccanica, Galileo Galilei, attratto dalla libertà di pensiero garantita dalla Repubblica veneziana (qui pubblica, nel 1610, il
Sidereus Nuncius) e dalla possibilità di condurre senza impedimenti le proprie ricerche astronomiche. Quando nel 1609 volge lo sguardo al cielo con il cannocchiale da lui perfezionato, conferendo dignità e rigore alle osservazioni astrali – ma inimicandosi la Chiesa -, anche la società artistica cittadina sembra mossa da un parallelo interesse al vero, proprio dell’agire scientifico.
Nell’anno dei festeggiamenti del quarto centenario delle osservazioni galileiane, i Musei Civici ricreano, attraverso un percorso ragionato di circa 70 opere – pitture e incisioni dalla collezione permanente e da prestiti pubblici e privati, alcuni esposti per la prima volta -,
l’ambiente culturale nel quale visse e operò lo scienziato pisano.
A cavallo tra XVI e XVII secolo la ritrattistica vive un momento felice: influenzati dalla teoria eliocentrica che re-inserisce l’uomo in un contesto ampiamente universale, gli esponenti di questa società evoluta, nobili, intellettuali, letterati, ecclesiastici (Schinella de’ Conti, Albertino Bottoni, Cesare Cremonini, Gabriele Falloppio, Giovanni Dolfin, Angelo Grillo, fra i molti) posano consapevoli del ruolo pubblico e sociale raggiunto.
Ai principali pittori locali o di area veneta, al servizio delle nobili famiglie (Capodilista, Buzzaccarini, Conti), è affidato il compito di documentare una società aristocratica e dotta, resa ancor più auto-celebrativa dall’egemonia culturale. Così
Tiziano, nel
Ritratto di Sperone Speroni, colloca di tre quarti il filosofo, isolandolo con rigore sullo sfondo scuro e collocandolo nel giusto posto a lui riservato dalla storia. La nobiltà è svelata sulla tela dal dettaglio, puntuale ed esplicativo, dalla luce naturale che rischiara i corpi e i volti e dal dato emotivo che ne indaga invece lo spirito, conferendo a nomi altisonanti un nuovo spessore psicologico e umano, enfatizzato dagli sguardi diretti e dalle posture d’ispirazione fiamminga.
I ritratti dei
Tintoretto,
Jacopo e
Domenico,
l’
Uomo barbuto (di recente attribuzione),
Alvise Cornaro (da Palazzo Pitti),
Marino Michiel e
Niccolò da Ponte, divengono invece, nelle fisionomie dei volti, nelle espressioni, nelle vesti sapientemente chiaroscurate, testimoni diretti dell’epoca.
Ai raffinati oli dei padovani
Varotari, il padre
Dario (allievo del
Veronese) e i fratelli
Alessandro (il Padovanino) e
Chiara, si aggiungono opere di
Francesco Da Ponte (il Bassano) e del fratello
Leandro, di
Francesco Apollodoro (il Porcia), di
Matteo Ponzone, di
Pietro Damini, di
Tiberio Tinelli, fino ad
Antonio Triva e
Giulio Cirelli, il cui linguaggio è già secentesco.
Alcune note virano verso la maniera; talvolta affiorano interventi di bottega. Ma, in ogni caso, lasciano inalterato il valore storiografico, oltre che artistico, di questa produzione.