La fotografia è perseguitata fin dalla nascita dal fantasma dell’obiettività. La capacità di “copiare” il reale attraverso l’impressione della luce faceva storcere il naso agli esteti come Baudelaire, che la ritenevano troppo compromessa con la meccanica per includerla fra le arti maggiori. Al contrario, artisti come Duchamp sfruttarono proprio questa caratteristica per documentare col sigillo della realtà cose che reali non erano: Rrose Sélavy, ad esempio. L’immagine sembra soprattutto avere una propria realtà. Può ingannare. È proprio in questo terreno di ambiguità che si alimenta tutta l’opera di Thomas Ruff, considerato fra i maggiori fotografi tedeschi contemporanei. Fra “i primi autori a cui dobbiamo la coscienza della fotografia come pratica decisamente artistica”, puntualizza la curatrice Angela Vettese. Ruff si serve della fotografia da artista concettuale: non è certo interessato a documentare esperienze, quanto a esplorare le caratteristiche linguistiche della tecnica. E, soprattutto, è interessato al mistero del risultato, l’immagine. “La fotografia pretende di mostrare la realtà.” sostiene. “Con la tecnica puoi avvicinarti moltissimo alla realtà sino a imitarla. E quando ti avvicini al punto di riconoscerla, in quel momento ti accorgi che non è così”. È questo il chiodo fisso di
Il caso-Ruff esplode all’inizio degli anni ’80, quando questo studente di Dűsseldorf, che divide equamente il proprio tempo tra i corsi dei coniugi Becher e i raduni punk, realizza una celebre serie: i Portraits. Un centinaio di ritratti di amici e parenti, di media grandezza, simili a una collezione di fototessere. La capacità della fotografia di descrivere la realtà è già implicitamente in crisi, visto che, dietro alla cura formale e all’originalità di certi tagli, è impossibile percepire qualcosa dei soggetti. L’oggettività in bianco e nero dei Becher, assimilata dal giovane, si colora e acquista funzione concettuale. Le serie successive proseguono la medesima strada: Häuser mostra edifici in rigoroso stile Bauhaus, Nächte include una serie di paesaggi notturni ripresi attraverso un visore a raggi infrarossi. L’effetto è, in tutti i casi, più straniante quanto più obbiettivo. Fra le idee migliori di Ruff, è quella di usare scatti di repertorio, saccheggiando vecchi archivi. La fotografia diventa ready-made. Ecco la serie Sterne, una collezione di scatti astronomici ingigantiti, o Zeitungsfotos, foto di giornale tolte d
L’esplorazione del digitale raggiunge la sua vetta con la serie Jpg, presentata con successo alla scorsa Biennale: una serie di foto scaricate da internet, e ingigantite fino al punto di esibire senza pudore la trama costitutiva dei pixel. Come in uno degli ultimi quadri di Tiziano, o nelle Ninfee di Monet, l’opera mostra la sua sostanza. Ma se in un quadro l’effetto contribuisce alla magia dell’”imitazione della natura”, nella fotografia l’effetto è opposto. Niente di meno reale che assistere dal vivo al disfacimento digitale di un’immagine.
Le opere di Thomas Ruff, in definitiva, sembrano riproporre questa domanda, che appartiene alla nostra storia dal tempo di Platone: le immagini sono reali?
andrea liuzza
mostra visitata il 22 giugno 2006
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