Una grande sceneggiatura multimediale, una tenzone percettiva che assembla magicamente disegni, scritti, dipinti e video. È il ‘93, e Palazzo Pesaro degli Orfei diventa Palazzo Fortuny: sacerdote dell’ordinazione un tipo che risponde al nome di
Peter Greenaway.
A chi in quei giorni varca i portoni di Campo San Beneto per la mostra
Watching Waters non può sfuggire l’alchimia che l’eclettico regista inglese riesce a distillare, impossessandosi di questo dannunziano contenitore e dialogando con lo spirito del suo ultimo proprietario, Mariano Fortuny y Madrazo. È Greenaway che “scopre” le virtù taumaturgiche di questo luogo, dimora ma anche atelier di fotografia, creazione di tessili e pittura. “
L’architettura di questo palazzo è viva”, scriveva l’artista, “
la voglio vedere e far vivere come se fosse il corpo immenso di una grande donna. La voglio scrutare e vestire, donarle sottovesti e vestiti per poterla svestire e scrutare con le luci…”.
Qualche anno e qualche biennale dopo, a vestirla arriva dalle Fiandre un altro personaggio speciale, un vulcanico imprenditore-collezionista-filosofo: Axel Vervoordt. Anche lui cade prigioniero del magnetismo che lo attira verso questo decadente intrico di mura scrostate, passaggi ardui, ambienti semibui e polverose suppellettili. Sarà qui che il mondo conoscerà la sua caleidoscopica collezione, che allinea pezzi di archeologia, arte moderna e installazioni contemporanee.
Ma perché parlare tanto della location, piuttosto che della mostra? Perché chi nel 2007 rimase ammaliato da
Artempo, e chi oggi viaggerà nelle galassie dell’immaginario artistico con
In-finitum, quando poi si ritroverà a chiedersi il perché di tanta bellezza e suggestione non potrà che rispondere: Palazzo Fortuny.
Prendete una a una tutte le opere esposte, mettetele in un “museo”, fra quattro pareti bianche, e tutto scemerà: avrete una disarmonica e didascalica collettiva che, nell’adesione a un “programma” affascinante ma non certo dirompente – finito, in-finito, non-finito -, diventa quasi documentaria.
E invece qui tutto sublima. Il viaggio nell’arcano dell’
apeiron greco, che tanto impegnò pitagorici ed eleati, diventa un campionario di sensazioni che riesce nella mirabile impresa di mettere queste sensazioni a disposizione di tutti, senza però mai abbassare la tensione spirituale. Grandi maestri affianco ad autori anonimi, dipinti, sculture, installazioni. Da
Pelagio Palagi ad
Antonio Canova, fino a
Bill Viola e
Grazia Toderi.
Stupefacente
La Maddalena penitente di
Francesco Hayez, che il maldestro pentimento nel volto elegge a paradigma di un non-finito eternamente enigmatico e freudianamente ipercontemporaneo. Ma è la chimera del rappresentare il nero – ispirata a
Jef Verheyen da una semplice frase del diario di
Klimt, “
Schwarz darstellen” – a divenire epitome dell’in-finito infinito, o infinito cosmico. La tenebra della Stanza Nera, al primo piano, è squarciata dalla
Fine di Dio (1963) di
Lucio Fontana (1963), vegliata da due black painting di
Ad Reinhardt.
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L'operazione è sicuramente interessante e godibile. Forse però c'è un eccessivo crogiuolarsi in un'allestimento troppo ricco e confusionale. La presenza di troppi input ,anche nascosti, quasi ammucchiati, porta un certo soffocamento. Ma forse era negli intenti...
Generalmente in tutti i musei che ho visitato fino ad ora ci sono artisti di spessori diversi.
E molto spesso nel tempo la valutazione degli artisti cambiano.
Per me sinceramente la mostra di Palazzo Fortuny e´largamente la piu´bella che si puo´vedere oggi a Venezia (compreso Palazzo grassi ecc..)invito tutti a visitarla .