“Se capite la vostra pittura in anticipo potreste benissimo non farla” è una lapidaria affermazioni di Salvador Dalì, personaggio controverso, celebre per le sue stravaganze, oltre che per una serie opere entrate nell’immaginario collettivo. Una per tutte la Venere di Milo riempita di cassetti oppure gli stracitati orologi “molli”, instabili metafore del tempo e dell’impotenza dell’uomo, originati, come racconta l’autore stesso “da un resto di formaggio camembert molto stagionato”.
Cacciato di casa nel 1939 dal padre, per l’irriverenza di un suo quadro con l’iscrizione “a volte sputo per piacere sul ritratto di mia madre”, e spesso bistrattato dai colleghi –Picasso, tanto per fare un esmepio parla di lui come “il nostro amico il matto”– Dalì è abile nel girare critiche (e pure qualche insulto) a suo favore asserendo “la gelosia degli altri pittori è sempre stata il termometro del mio successo”.
La rassegna di Palazzo Grassi -che chiude in bellezza l’era Fiat dell’istituzione culturale, ceduta al Comune di Venezia- festeggia il centenario dell’artista nato ai piedi dei Pirenei e passa in rassegna il suo inquietante mondo di allucinazioni, ricordi e visioni oniriche. Dalle figure terribili e ironiche, alle angosciose incarnazioni di fobie infantili, dalle paure adolescenziali, di desideri come di incombenti minacce, alle tematiche fantastiche e ossessive legate a al sesso e alla morte. Dalì crea un autentico pantheon di oggetti che unisce in associazioni apparentemente incongrue legate a riferimenti biografici o a immagini oniriche: così è la gruccia, oggetto feticcio, ambiguo accessorio della decomposizione e simbolo di possibile risurrezione, o le figure femminili spettrali, simboli di paure sessuali, o i cipressi che gli evocano pulsioni di morte e fantasie masturbatorie, o –ancora- il calamaio, simbolo fallico di autorità legato alla figura paterna (suo padre era notaio) e le uova al tegame, opposizione di duro/molle su cui si fonda l’intera iconografia dell’artista. Oggetti-simboli caratterizzati da una resa pittorica illusionistica, presenze spiazzanti e enigmatiche.
“A sei anni, volevo diventare una cuoca. A dieci, Napoleone. Da allora in poi le mie ambizioni sono venute sempre crescendo” scrive nella Vita segreta del 1942, una vera e propria miniera di informazioni per districarsi nei meandri del Dalì-pensiero.
L’artista studia –a modo suo- la psicanalisi freudiana, affascinato da luci e ombre dell’inconscio arriva ad elaborare il metodo “paranoico critico”, chiave interpretativa per il mondo che lo circonda. E, intanto, costruisce il suo mito.
Per Gala, moglie “rapita” all’amico Paul Eluard e divenuta sua compagna e musa, Dalì nutrirà una vera ossessione d’amore, mitizzandola la ritrae in mille modi: da Gala Geodetica alla Madonna di Port Lligat dove raffigura la sua amata nei panni della Vergine in un delirio di luce e particelle atomiche.
Baffoni, occhio folle e furbo, pittore, scultore, scrittore, incisore, regista, inventore di oggetti (suo è il sensuale Divano-labbra di Mae West), avido di denaro e di successo, icona ingombrante, Dalì sembra oltrepassare qualsiasi stereotipo, è geniale, dispotico, antipatico, affascinante o insopportabile. Così alla mostra va riconosciuto un merito, aver messo da parte il personaggio, per raccontare -finalmente- l’artista.
myriam zerbi
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