Entrando nel Salone del Palazzo della Ragione di Padova non si fatica a immaginare perché
Kengo Kuma (Prefettura di Kanagawa, 1954) abbia presumibilmente intravisto, tra i raggi di luce che penetrano da ovest, le
due carpe che danno titolo e corpo alla mostra. Questo luogo è, infatti, come un enorme acquario o una carena di nave rovesciata; un ventre magico, capace di contenere i più importanti eventi culturali padovani.
Come le carpe svolazzanti della Festa dei Bambini il 5 maggio in Giappone accarezzano e colorano i cielo, così l’installazione della mostra dialoga, lievemente, con lo spazio storico. Un percorso sopraelevato a forma di otto misura la veneziana del pavimento e, allo stesso tempo, contiene i panelli espositivi, cosicché il visitatore li calpesti e abbia lo sguardo rivolto verso il basso. Lungo questo nastro si susseguono i lavori dell’architetto, suddivisi in quattro classi tematiche: acqua, terra, villaggio e città , interrotti da un lungo tunnel di stoffa a sezione variabile.
Ai lati, come isole emerse, due micro-padiglion: una
tea house in policarbonato alveolare dedicata al maestro
Oribe e una troppo ardita costruzione cubica in carta, andata parzialmente distrutta durante la mostra. La composizione è, infine, spezzata diagonalmente da una processione di cerchi metallici e organza appesi alle catene della copertura. I cardini dell’estetica del maestro giapponese hanno, perciò, poeticamente preso forma. E se il percorso ciclico ricorda che l’architettura è un arte dinamica e sequenziale come il cinema e la musica, l’enorme pesce di stoffa con la bocca spalancata sprona a distruggerla e a rielaborarla. “
I want to erase architecture”, dice Kuma. Il tutto in precario equilibrio, tra sofisticate rimembranze e un effetto “ottovolante” sempre in agguato, quando l’esposizione si trasforma in installazione, in evento.
L’architettura di Kuma non è immune da questo conflitto: la fama di cui gode è più legata alla sua poetica capacità compositiva o alla sequenza iconografica che costella la sua mirabile carriera? I discepoli dell’architettura come disciplina a sé, arte del costruire e del dettaglio, guardano a lui come a uno degli ultimi profeti. Ma chi esce da questa mostra si rende conto che anche questa volta lo
spettatore ha dettato la sua dittatura. Anche se oggi ha gli occhi di un bambino giapponese.