Gelatine Lux di
Maria Grazia Rosin (Cortina d’Ampezzo, 1958; vive a Venezia), allestita al piano terra di Palazzo Fortuny -la casa atelier di Mariano, finalmente aperta al pubblico in tutti i suoi spazi, secondo un nuovo percorso museale ricco di stimoli- si presenta come una grande “installazione”.
Folpi,
virux,
ventosiani,
venussiani,
medusiani, creature un po’ fantastiche e un po’ reali, eseguite in vetro opaline, alessandrine, ametista, pasta vitrea di diversi colori e illuminate da luci alogene, led e fibre ottiche, sono le opere scultoree in vetro soffiato che Rosin espone. L’artista le ha disegnate e realizzate grazie alla collaborazione e al sodalizio con affermati maestri vetrai, quali Sergio Tiozzo e Pino Signoretto. La luce “organica” emanante da questi strani organismi, unita ai brani di musica elettronica dei Visnadi & Camomatic e alla vorticosa immagine video realizzata dalla stessa artista in collaborazione con Andrew Quinn, esperto di video e computer grafica, contribuisce a creare una dimensione immaginifica di grande suggestione.
Rosin è un’artista ormai nota sulla scena internazionale, le sue opere “
nascono già adulte”, sostiene Silvio Fuso, curatore della mostra.
E, naturalmente, l’esperienza artistica che ha maturato nel corso degli anni -Lia Durante li racconta tutti in dettaglio, in un’appassionata biografia a catalogo- non lascia spazio a improvvisazioni e tentennamenti. Nonostante i meritati successi conseguiti, con personali e collettive in Italia e all’estero, nonché con la presenza nelle collezioni di musei come il Corning Museum of Glass di New York, il Kunst Museum di Düsseldorf e il Museo del Vetro di Murano, in lei è sempre vivo e forte il desiderio di sperimentare e “intrecciare” la sua arte con altre espressioni artistiche. Pertanto, il saggio così superbamente esemplificato in quest’installazione è certamente destinato ad avere un seguito.
All’ambito del linguaggio sperimentale e della contaminazione di stili e metodi, tradizionali e innovativi, si rivolge pure l’opera dell’artista inglese
Stephen Bottomley (Norwich, 1967), che in quest’occasione rende omaggio alla creatività eclettica e avveniristica di Mariano Fortuny, grande sperimentatore e designer
ante litteram. Gioielliere, anzi orafo, come ama definirsi -qui il pensiero vola alle botteghe rinascimentali dove i ragazzi, futuri scultori, venivano avviati a quest’arte- Bottomley presenta gioielli che sono vere opere scultoree, il prodotto, tanto felice quanto difficile da realizzare, dell’incontro fra progettazione digitale e abilità tecnico-artigianale. Le creazioni -ciondoli, bracciali, collier- sono ispirate ai disegni e alle visioni di Mariano Fortuny e sono ottenute con materiali quali acrilico, acciaio, argento e titanio.
Grazie all’attenta ricostruzione degli ambienti di un tempo, il visitatore di Palazzo Fortuny viene avvolto da un’autentica atmosfera
bohémienne prima di imbattersi -insieme agli avveniristici gioielli di Stephen Bottomley e senza incorrere in alcun anacronismo stilistico o storico- in Henriette, la moglie di Mariano, che indossa un
delphos, l’abito che il marito aveva espressamente ideato per lei.