Non potremmo mai dire compiutamente se le città siano prigioni dentro cui viviamo o semplici contenitori che la storia ci ha assegnato, molto meno insicuri della giungla. Se gelide torri di ferro e cemento o, al contrario, luoghi accoglienti dove trascorrere la vita, di corsa, in attesa che la natura ci porti al capolinea.
Sono queste le riflessioni da cui dev’essere partito
Devis Venturelli (Faenza, Ravenna, 1974; vive a Milano), che ormai da qualche anno sta portando avanti una sottile ed elegante operazione di abbellimento e riutilizzo estetico delle città, manifestatasi anche in interventi di public art di natura socio-relazionale. Come quello realizzato a Bologna in occasione di ArteFiera, con lunghi nastri di tessuto che sono stati fatti passare tra diverse abitazioni di due adiacenti condomini.
“Un’altra città è possibile”, sembra dire l’artista. La sua opera, infatti, trae spunto da una forma personale di riappropriazione degli spazi, dell’arredo urbano, che non sono banalmente fornitori di
object trouvé, bensì luoghi in cui è possibile – alla maniera dada – risemantizzare ciò che ci circonda, senza però che in ciò vi sia una sottrazione dell’oggetto dal sito originale o una perdita di funzionalità.
Un video in galleria mostra un semaforo, avvolto da boa di struzzo colorati, mentre si mostra in tutta la sua inquietante bellezza da
trans, in cui coesistono elementi maschili (la funzione) e altri più delicatamente femminili (il civettuolo agghindarsi). Similmente, un cassonetto della spazzatura è stato messo in pelliccia, in modo da attirare gli sguardi dei passanti quando si apre per accogliere nella propria pancia la spazzatura. Anche qui i due elementi si sposano senza urtarsi.
È infatti l’ibridazione una delle caratteristiche più interessanti del lavoro dell’artista romagnolo, che sa far collimare istanze eterogenee, originate dai contesti più disparati. Le sue azioni sono raffinati
esercizi di stile alla Queneau, grazie ai quali un’ordinaria azione quotidiana devia dal binario della banalità per diventare umoristica narrazione.
Una serie di foto e un video, curiosamente montato verticalmente, mostrano infine alcuni cestini vestiti con gonne di fogge differenti, risvegliati a nuova vita. È il vento a muoverle, a scuoterle. Come scrive in catalogo Peter Weiermair, è una “
metafora poetica del continuo e imprevedibile divenire dell’esistenza”.