Una rassegna di giovane arte all’interno di una chiesa sconsacrata, in inoltrata provincia, è un terreno di gioco al contempo difficile e seducente. Offre la possibilità di provare il gusto di scelte più azzardate, di dialogare con uno spazio che ha un passato e una spiritualità che si avvertono in modo incisivo, e può anche ispirare svolte nella ricerca artistica di chi vi si trova a preparare un progetto site specific.
Barbara Taboni (Iseo, Brescia, 1973; vive a Belluno e nella Vallecamonica) è appunto un ottimo esempio di come non solo il lavoro di un artista possa dialogare con lo spazio, ma anche di come possa crescere in funzione di esso. È, infatti, la prima ad ammettere che la mostra nel suo svilupparsi ha assunto posizioni romantiche e mistiche non previste, e il risultato è un progetto intitolato
Selah, già definita la parola della Bibbia più difficile da tradurre.
La si può paragonare ad ‘amen’ in modo molto approssimativo, ma non si tratta dell’affermazione di un dogma e di un credo; è piuttosto un momento di pausa, riflessione e illuminazione. Una comprensione ragionata e al contempo mistica. È la sensazione che l’artista voleva comunicare e, per rappresentarla visivamente, ha utilizzato il proprio corpo e l’ambiente naturale, in scatti che uniscono il senso di un’organicità finita a una concezione universalistica della vita come ciclica e immortale.
Questa visione, per certi aspetti simile a una fede religiosa, non ha però simboli e divinità a cui rivolgersi. È piuttosto una condizione esistenziale, un equilibrio fra se stessi e il mondo. Per questo una chiesa sconsacrata è perfetta per la sua ideale via di mezzo tra sacro e laico, sottolineata dall’installazione che occupa in modo minimale ma diffuso tutto l’ambiente: cinque paia di gambe finte piegate come fossero in ginocchio assumono invece diverse posizioni provocatorie, con accenni di erotismo o addirittura di sacrilegio, come quelle “sedute” sull’ex-altare.
Infatti, a esser considerato sacro non è – o non è solo – ciò che viene oltre la vita, ma la vita stessa, di cui l’essere umano è parte integrante, in un meccanismo biologico che fa parte sia della nostra fisicità che della nostra interiorità. Ne sono un esempio le sculture dove alcuni rami crescono dall’interno verso l’esterno, in un meccanismo di espansione vitale. Questo nonostante la morte sia un fatto innegabile e resti la nostra principale paura, il lato oscuro che portiamo costantemente dentro.
Le prime opere che s’incontrano in mostra sono appunto dedicate a questo cono d’ombra, con foto che rappresentano metaforicamente la mortalità attraverso la notte e l’assenza di luce. Ma è appunto significativo che, procedendo dall’ingresso verso l’altare, ci sia un percorso di senso che spinge verso le immagini più luminose in mostra, tracciando una strada di superamento dei nostri timori più forti. Verso nuove speranze e verso una nuova fede in un ordine universale.