La scelta di Enrico Minato è stata di condurre una vita ritirata in quel di Crespano, paesino alle pendici del Grappa, senza che questo gli abbia pregiudicata l’intensa attività espositiva in Italia e all’estero, pur in situazioni alternative rispetto al circuito cosiddetto ufficiale e più adatte alla vocazione concettuale del suo lavoro.
Il titolo della personale curata da Stefania Portinari, Catasto, allude alla volontà di una ricapitolazione del lavoro dell’artista, all’accumulo e alla quantificazione di idee e progetti, dai quali esce una determinazione ed un’identità senza compromessi, non di rado spese su tematiche sociali e ambientali, affrontate con raffinata attenzione estetica e con un narcisismo mai stucchevole o fine a se stesso.
Minato è un fiume in piena: in galleria ce n’è per tutti i gusti, dalle installazioni ambientali alle opere plastiche a parete, dalle opere grafiche alla performance, al video. L’allestimento conta poco e ogni muro, spazio, angolo diventa opportunità per dire qualcosa, per affermare un altro pensiero.
Nella penombra della Cripta, al suono di una goccia che cade inesorabile, una serie di libri sigillati, ordinati lungo le pareti, fanno affiorare parole che rinviano alla sacralità del luogo e alla logorante impossibilità di cogliere una qualsiasi verità.
Nella sala superiore, un grande pannello colorato di gommapiuma, in cui è scavata a mani nude la scritta Di/segno con dito, invoca il recupero della manualità come affermazione di sé e fa il paio con la scritta a muro Un suono lieve, realizzata sagomando un tondino di ferro in un calligramma dalla divagazione onomatopeica che rinvia alla tradizione della poesia futurista e visiva e che ritorna nelle carte timbrate, dove si corrispondono forma e concetto.
La struttura specchiante in acciaio inox Via vai, dalla forma di croce greca in alzato, non punta ad un effetto percettivo astratto della riduzione dello spazio (alla maniera delle Gabbie-specchio di Pistoletto) ma a quello concreto della registrazione del passaggio dei visitatori, una sorta di telesorveglianza ante litteram.
L’inaugurazione è stata occasione per una un’azione performativa, violenta e distruttiva, durante la quale l’artista ha letteralmente buttato tutto a carte e Quarantotto, dove le carte erano una serie di cartoncini in forma di numeri 4 e 8, dichiarando una decisa volontà di ribellione e di trasgressione dei falsi ordini, nell’arte come nella vita.
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ottimo...
gianfranco grosso