Dopo anni di attesa il maestoso palazzo della Gran Guardia (1033 mq), che si affaccia sull’Arena e conclude la camminata del Listòn di piazza Bra, viene restituito alla città di Verona.
Alla conferenza stampa che ha preceduto l’inaugurazione hanno preso parte, tra gli altri e di fronte ad un buon numero di giornalisti, il Sindaco di Verona, Michela Sironi Mariotti (visibilmente orgogliosa dell’impegno profuso dalla propria amministrazione per la conclusione dei lavori al palazzo), l’architetto Luigi Calcagni, Giorgio Cortenova, direttore di Palazzo Forti e co-curatore della mostra col Conte Panza di Biumo, presente anch’esso con Germano Celant, in rappresentanza del Guggenheim di NY.
La Gran Guardia fu progettata nel ‘600 da Domenico Curtoni alla maniera del Sanmicheli. L’edificio fu terminato nel XIX secolo e assunse allora le forme di un ordine gigante neoclassico. Fu sede della Camera di Commercio e delle Borse dei grani e dei vini. La nave, come la chiama l’architetto Calcagni autore del presente restauro, cadde in rovina intorno agli anni ’60; negli anni ’80 fu avviata l’opera di restauro che, non senza difficoltà, si chiude oggi con una spesa di poco inferiore ai 22 miliardi, giustificata da un lavoro che appare ben riuscito, nell’inserimento di soluzioni tecnologiche e spazi adeguati alle moderne esigenze, nel rispetto delle strutture e forme antiche; ma ci pare di poter dire che oggi la piazza ritrova soprattutto un giusto equilibrio, minato finora dal degrado di un monumento progettato per reggere l’imponente presenza dell’anfiteatro romano del I sec. d.c..
Inaugura l’attività del palazzo la mostra “La percezione dello spazio”, che già nel titolo manifesta la scelta dei curatori di ospitare opere adeguate ad abitare le grandi sale del palazzo. Dalla collezione Panza depositata al Guggenheim di NY provengono pezzi di altissima qualità dei maggiori artisti della corrente minimalista americana, che visse la sua stagione più florida negli anni ’60, ma i cui germi vanno da ricercare nel decennio precedente.
Carl Andre (Quincy 1935) usa elementi modulari di produzione industriale: piastre di alluminio, piombo, zinco o rame vengono appoggiate sul pavimento a formare zone o spazi abitabili. Lo spettatore è invitato ad appropriarsi di questo hortus conclusus di classica memoria per recuperare una misura aurea dello spazio e l’armonia spazio/corpo.
Lavora con la luce dei tubi al neon colorati Dan Flavin (NY 1933-1996). La luce diviene misura dello spazio; i segmenti dei neon costruiscono suggestive geometrie attorno alle quali si generano atmosfere rarefatte che sembrano nutrirsi delle tenui e basse vibrazioni sonore causate dal gas luminoso.
Donald Judd (Excelsior Springs 1928 – NY 1994) utilizza preferibilmente elementi modulari costruiti con materiali industriali. Le forme primarie (cubi, parallelepipedi, ecc.) sono allestite isolatamente o a pile a distanze regolari, a terra o a muro. Superfici colorate o, ancor più spesso, riflettenti, esatte sequenze matematiche: lo spazio viene governato attraverso un ordine che comprende in sé armonie cromatiche, sonore, e spaziali. E’ la sintesi del monolite.
Pur essendo vicino alle teorie di Judd, se non altro per la scelta delle forme geometriche essenziali, Robert Morris (Kansas City 1933) in realtà se ne allontana per la volontà di creare nuovi spazi architettonici o modificare quelli che accolgono le sue strutture metalliche. Lo spettatore è invitato alla presa di coscienza piena dello spazio, ottenibile solamente entrando in uno stato di piena entropia con l’opera d’arte.
Phil Sims (Richmond, California, 1940) è pittore di monocromi particolarmente suggestivi. Le sue tele su lino, di grandi dimensioni, sono realizzate con campiture e ritmi che alternano zone opache a zone lucide. Pittura sintetica, classica quella di Sims, meno distante da Giotto di quanto si possa credere.
James Turrel (LA 1943) è autore di una delle opere di maggior fascino della mostra veronese. Il suo Night Passage è una stanza buia da percorrere a tentoni per raggiungere uno spazio vuoto. Occorrono alcuni minuti per allenare lo sguardo alle luci soffuse, blu e gialle che ci proiettano in una dimensione onirica. Un’esperienza intima e silenziosa in un luogo che sembra collocarsi fuori delle leggi della fisica.
Lawrence Weiner (NY 1942) utilizza la parola come strumento di espressione. Artista concettuale, pienamente partecipa del clima americano degli anni ’60, sulla linea di Kosuth egli elabora testi o brevi dichiarazioni che rimandano ad una dimensione invisibile e le colloca sui muri, quali moderne epigrafi.
Il catalogo a corredo della mostra è interessante. Ottima è soprattutto l’intervista di Angela Vettese al Conte Panza di Biumo. La brava critica stuzzica il collezionista sui temi caldi dell’arte minimalista: esistono possibili letture estetiche dell’arte minimal? Può essere concepita una bellezza nell’assoluta sintesi? Come si concilia la laicità degli artisti minimali con il senso di sacralità che pervade queste opere?
Il Conte Panza non si sottrae e con acume ed intelligenza risponde invitando ad una rilettura della minimal art e facendo sospettare che certe generalizzazioni ed interpretazioni superficiali siano frutto di un grande equivoco. Mai interamente accettata dagli artisti, la definizione di arte minimalista raccoglie istanze che ancor oggi, seppur con accenti diversi, influenzano la creatività e l’opera di numerosi artisti, per non dire dell’architettura. Il testo di Cortenova è alquanto deludente. Parte da Malevic e chiude dichiarando la fine di un movimento mai nato; soprattutto non considera l’onda lunga di quella cultura, negli anni successivi e fino ad oggi: per informazioni chiedere a Giuseppe Panza.
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Mostra molto interessante. Non ho letto il catalogo ma l'ultima frase sembra in pieno concerto con una mostra madrilena appena inaugurata. "Evitare l'irrilevante per enfatizzare l'importante", il minimalismo è tutt'altro che finito... cfr. http://www.elmundo.es/diario/cultura/1020952.html