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17
dicembre 2007
fino al 19.I.2008 Michael Cline Venezia, Il Capricorno
venezia
Da George Grosz a David Lynch: una pittura sofisticata e ricca di riferimenti. Una serie di frammenti narrativi, per uno scorcio privato dell’America di oggi. Prima personale italiana per Michael Cline, realista anti-utopico...
Si è spesso parlato, riguardo allo stile pittorico di Michael Cline (Cape Canaveral, 1973; vive a New York), di una comunanza di tratto piuttosto marcata con il realismo espressionista di stampo tedesco (la Neue Sachlichkeit di Otto Dix e George Grosz). Si tratta però di un riferimento quantomai deliberato: “Prendere in prestito mezzi europei”, secondo le parole dello stesso Cline. In occasione della personale al Capricorno, l’artista mette in scena una serie di sketch che, al di là dei riferimenti formali, hanno un pungente sapore di America. Per una certa attenzione ai piccoli eventi quotidiani, vengono in mente le short story di Raymond Carver: A fine Trick e Another fine Trick -entrambi del 2007, come tutte le opere in mostra- hanno come argomento degli scherzi domestici.
I dipinti di Cline utilizzano costantemente il materiale narrativo, seppure in maniera atipica. Il riferimento esplicito dell’autore è David Lynch, con il suo storytelling fatto di frammenti disconnessi che vanno a disporsi attorno a una fabula mai svelata. Sono allora gli oggetti ad assumere un’importanza fondamentale, in quanto è attraverso di essi che il racconto si rivela. Nelle composizioni di Cline vi è, ad esempio, il leitmotiv delle scritte o dei biglietti promemoria appesi alle pareti: luoghi dell’annotare ma anche del confidarsi (uno di essi si rivolge a un autobiografico “Mike”).
I lavori del pittore americano sono da considerarsi dei frame. Questa definizione opera anzitutto in senso temporale: l’arbitrio dell’artista sta nella scelta di un determinato still, un singolo istante da mostrare. Non sappiamo cosa ci sia stato prima, non sappiamo cosa ci sarà dopo. La narrazione inizia e finisce nell’arco di un attimo, in medias res. Ma la pratica del framing lavora anche a livello spaziale: si avverte sempre la separazione fra ciò che è in campo e ciò che è fuori. Lo spazio rivelato non comprende la totalità dell’evento. Il limite dell’inquadratura parla anche di ciò che sta fuori di essa, il punto nevralgico della scena può essere da qualche altra parte (come in Dear K, dove un cane che guarda di lato viene presentato in primo piano, mentre una mano e degli oggetti compaiono solo marginalmente). In entrambi i sensi, il frame di Michael Cline è determinato non solo da ciò che comprende, ma pure da ciò che è escluso. L’enigmaticità dei quadri è data dagli elementi che non vengono presentati, ma di cui si avverte sempre il peso. Ciò che è raffigurato assume allora lo statuto di indizio, di segnatura, nell’accezione teorizzata da Agamben.
Riguardo a Cline si è spesso parlato di una concezione distopica della società. Tornando alla comunanza formale con la Neue Sachlichkeit, viene però da chiedersi se quello che il pittore americano ci sta proponendo non sia in realtà un’inquietante costellazione storica fra la Germania weimeriana pre-nazista e gli Stati Uniti al giorno d’oggi.
I dipinti di Cline utilizzano costantemente il materiale narrativo, seppure in maniera atipica. Il riferimento esplicito dell’autore è David Lynch, con il suo storytelling fatto di frammenti disconnessi che vanno a disporsi attorno a una fabula mai svelata. Sono allora gli oggetti ad assumere un’importanza fondamentale, in quanto è attraverso di essi che il racconto si rivela. Nelle composizioni di Cline vi è, ad esempio, il leitmotiv delle scritte o dei biglietti promemoria appesi alle pareti: luoghi dell’annotare ma anche del confidarsi (uno di essi si rivolge a un autobiografico “Mike”).
I lavori del pittore americano sono da considerarsi dei frame. Questa definizione opera anzitutto in senso temporale: l’arbitrio dell’artista sta nella scelta di un determinato still, un singolo istante da mostrare. Non sappiamo cosa ci sia stato prima, non sappiamo cosa ci sarà dopo. La narrazione inizia e finisce nell’arco di un attimo, in medias res. Ma la pratica del framing lavora anche a livello spaziale: si avverte sempre la separazione fra ciò che è in campo e ciò che è fuori. Lo spazio rivelato non comprende la totalità dell’evento. Il limite dell’inquadratura parla anche di ciò che sta fuori di essa, il punto nevralgico della scena può essere da qualche altra parte (come in Dear K, dove un cane che guarda di lato viene presentato in primo piano, mentre una mano e degli oggetti compaiono solo marginalmente). In entrambi i sensi, il frame di Michael Cline è determinato non solo da ciò che comprende, ma pure da ciò che è escluso. L’enigmaticità dei quadri è data dagli elementi che non vengono presentati, ma di cui si avverte sempre il peso. Ciò che è raffigurato assume allora lo statuto di indizio, di segnatura, nell’accezione teorizzata da Agamben.
Riguardo a Cline si è spesso parlato di una concezione distopica della società. Tornando alla comunanza formale con la Neue Sachlichkeit, viene però da chiedersi se quello che il pittore americano ci sta proponendo non sia in realtà un’inquietante costellazione storica fra la Germania weimeriana pre-nazista e gli Stati Uniti al giorno d’oggi.
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mostra visitata il 1° dicembre 2007
dal 1° dicembre 2007 al 19 gennaio 2008
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Galleria Il Capricorno
San Marco 1994 (zona Fenice) – 30124 Venezia
Orario: da lunedì a sabato ore 11-13 e 17-20
Ingresso libero
Info: tel./fax fax +39 0415206920; galleriailcapricorno@libero.it
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