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l’ape succhia, lì succhio io…”. Un verso shakespeariano fa da titolo
all’installazione di Hema Upadhyay (Baroda, 1972; vive a Mumbai), già
presentata al Macro nel 2009. Sono le parole di La Tempesta con cui
inizia il canto di Ariel che annuncia la propria ritrovata libertà e il suo
imminente ritorno al mondo naturale, allegro tra i fiori in cerca dell’estate.
Ma
non c’è spazio per l’allegria né per la natura nell’opera dell’artista indiana.
Vi trova piuttosto angoscia, rassegnazione, miseria, impotenza di fronte all’enorme
spada di Damocle dello sviluppo sospesa su un ammasso di minuscole case di
lamiera. Ai piedi dello spettatore si trova un cumulo di piccoli edifici
ricavati, che già l’artista aveva utilizzato per esplorare simbolicamente le
contraddizioni delle grandi città indiane. Riproducono le sterminate jhopadpatti,
misere baraccopoli degli operai, ostacolo allo sviluppo contro il quale si sono
diffusi in India dei programmi di “slum clearance”.
Upadhyay
presenta un’istantanea simbolica di questi processi di smantellamento, fissando
la riproduzione in resina del braccio meccanico di una ruspa sopra di loro. Nelle
opere dell’artista indiana sono sempre in evidenza i contrasti e le
contraddizioni dell’India contemporanea, mescolando alta e bassa cultura,
povertà e ricchezza. In Where the bees suck, l’alta cultura è sullo
sfondo, come movente della presenza minacciosa della ruspa, realizzando
un’immagine tanto evocativa da essere forte e debole allo stesso tempo.
Un’installazione
che ha dalla sua riconoscibilità, immediatezza, drammaticità, ma a cui non è
estranea una semplicità simbolica autoevidente e retorica, riscattate dalla sua
efficacia. L’opera colpisce infatti lo spettatore e non si lascia più scrollare
dal suo sguardo. Rimane saldamente impressa nel suo immaginario, proprio perché
gioca con figure consuete.
Significativamente
la grande benna della ruspa che sovrasta il mucchio di case è ferma. E più che
rimuovere, sembra stia ammassando le piccole case sotto di sé. Da Boltanski
a Pistoletto, da Arman a Cristoph Büchel, la
poetica dell’accumulazione è una pratica consueta nell’arte contemporanea.
Upadhyay la rinnova con una serialità artigianale dall’andamento fatalmente ciclico.
Parte da rifiuti di lamiera che poi manipola e colora per ottenere piccoli
edifici, che nella loro estrema semplicità rispecchiano fedelmente le
condizioni di ciò che rappresentano. Dà vita alla miniatura di un melting pot di migranti di diverse
culture e religioni, tra chiese, moschee e una grande messe di antenne paraboliche.
In
un secondo momento, questi rifiuti divenuti case ritornano rifiuti, ammassandosi
disordinatamente gli uni sugli altri, come in una discarica. Simboleggiano
anche il destino irredimibile dei propri abitati, che si possono mettere da
parte senza problemi, sacrificandoli a un processo di gentrificazione che tarda
a nascere spontaneamente.
Hema
Upadhyay a Verona
stefano
mazzoni
mostra
visitata il 27 novembre 2010
dal
27 novembre 2010 al 19 febbraio 2011
Hema Upadhyay – Where the
bees suck there suck I…
a cura di Marco
Meneguzzo
Studio La Città
Lungadige Galtarossa, 21 – 37133 Verona
Orario: da martedì a sabato ore 9-13 e 15.30-19.30
Catalogo disponibile
Ingresso libero
Info: tel. +39 045597549; fax +39 045597028; lacitta@studiolacitta.it; www.studiolacitta.it
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