30 ottobre 2000

Fino Al 19.XI.2000 Giovane minimalismo intimista: Max Cole e Julia Mangold Verona, Galleria Studio la Città

 
Vi piace l’arte minimalista americana? Siete di quelli che hanno a cuore gli artisti giovani? Cercate un luogo estremamente raffinato che sappia mettere insieme le due cose e garantire un livello di qualità altissimo? Beh, allora la mostra veronese di Max Cole e Julia Mangold fa per voi...

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Due donne, Max e Julia, la prima americana ma lavora in Europa, la seconda tedesca. Entrambe sono coinvolte dalle istanze minimaliste americane, entrambe però se ne distaccano per originali soluzioni intimiste. La Cole si mette alla prova su tele neutre sulle quali traccia linee orizzontali e parallele di diverso colore, spessore e forma. Osservando le tele da una distanza adeguata, si ha dapprima la sensazione di trovarsi di fronte ad opere di intenzione Optical, caratterizzate da un continuo moto oscillatorio determinato dal dilatarsi e incurvarsi delle linee. Un inganno per l’occhio dunque. Certo, ma una volta acconsentito al proprio spirito di entrare in una relazione più duratura con quelle superfici, l’impressione ottica tende a mutarsi in impressione sonora.

E infatti quell’andamento ritmico e cadenzato genera melodie essenziali, primarie; a voler sintetizzare questa sensazione si potrebbe dire di assonanze luminose, di sequenze melodiche di origine sconosciuta, eppure parte del patrimonio genetico di ciascuno di noi.
Cosa lega queste strane tele alle essenziali sculture d’acciaio di Julia Mangold? Lei che, edotta all’arte della composizione dal padre fotografo è tornata da Parigi a Monaco, sua città natale, per mettersi a saldare pesanti lastre scure in forme minime rettangolari che poi accosta l’una all’altra sulla parete o sul pavimento? E’ una sorta di affinità sonora dovuta alla tecnica e alla sintesi progettuale che sottendono alla realizzazione di queste opere. Julia tratta l’acciaio con l’acido, poi lucida le barre con strati di cera. Ne escono superfici traslucide, spazi scuri dalla profondità indefinita che alla luce rispondono con luminescenze bronzee. Le lastre sono assemblate come grosse scatole di diverso spessore, quindi composte a gruppi di due, tre, sei, fino a giungere all’effetto voluto.

Geniale la scelta di associare scatole di diversa altezza, evidenziando una maggior scansione ritmica e, contestualmente, ottenere che il visitatore rimanga irretito dalla sovrapposizione dei piani posti a varia distanza, almeno fino a che non subentra in lui la curiosità di osservare le opere dalle molteplici prospettive possibili, per vederle sempre diverse, da sinistra a destra, da sopra, di scorcio.
Eccoci tornati al punto di partenza: di nuovo lo spazio, di nuovo il moto ondulatorio, stavolta dei piani accostati, di nuovo una melodia generata dall’osservazione ora di questo, ora di quel rettangolo buio.
Le sculture della Mangold sembrano, infatti, registri musicali sui quali i tasti si alzano e si abbassano creando suoni che riverberano nelle casse di risonanza celate nella forma stessa delle scatole scure.
Di fondo bisogna riconoscere a Julia un grande rigore geometrico e matematico, una grande abilità nel gestire le proporzioni, quasi un rimando alla sezione aurea di matrice classica. L’artista non nega l’amore per il minimalismo americano, non si sottrae dal confronto con l’amato Richard Serra e con Donald Judd.
Ma è sotto gli occhi di tutti che Julia esce, da questo confronto, con una spazialità nuova e originale, più a misura d’uomo e più intima.

Come molti artisti degli anni ’60 e ’70 lei riconosce l’acciaio come materiale che caratterizza l’epoca contemporanea, ne conosce la storia e l’evoluzione, lo sa manipolare; ma a differenza di quelli per lei la fase progettuale non è lo stadio terminale dell’opera, a differenza di quelli per lei lo spazio circostante è un termine di confronto, una dimensione abitabile, a misura d’uomo, non una realtà da stravolgere o da inventare ex novo. Sta in questo la novità di Julia, nel suo minimalismo maturato nel presente e dunque assomigliato ad un’epoca che, sostanzialmente, vive una sorta di nuovo umanesimo.


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Alfredo Sigolo



“Max Cole e Julia Mangold”. Verona, galleria Studio la Città, via Dietro Filippini 2. Tel. 045/597549; fax 045/597028; e-mail: lacitta@sis.it; web: http://www.artnet.com/citta.html. Dal 7/10/2000 al 19/12/2000. Orari: 9.00-13.00 e 15.00-19.30. Chiuso domenica e lunedì. Catalogo in galleria.


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9 Commenti

  1. Nel periodo della mostra alla Guggenheim sul collezionista Panza questa esposizione veronese è un’occasione per approfondire le correnti minimaliste contemporanee. Complimenti alla galleria.

  2. Per Giorgio: considero il tuo commento come un complimento alla scelta dello scrivente di non perdersene una, delle loro mostre: la pensiamo allo stesso modo.

  3. “la ripetizione ossessiva di un gesto, una richiesta insistente di un bene infinito che cerchiamo e non troviamo” G.Panza per M. Cole;
    coraggiosa, raffinatissima, e, di grande forza l’opera di J. Mangoldf (tasti di un pianoforte che scorrono su uno spartito di mozart?)

  4. Vi è dunque un elemento positivo nel minimalismo di Julia (cioè la riappropriazione di uno spazio “sicuro” e “gestibile” da parte dell’uomo)? E’ questo che vuoi dire? Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sui minimalisti americani. Sono più “inquietanti”?
    Ciao!!!!!

  5. Ho visto le opere di questa artista ad ArteFiera e non mi sono sembrate male. Forse un po decorative, non so…certo è che la definizione di minimalismo misembra molto molto appropriata.

  6. Per Darione e Costantino. Premetto che a me la tedesca Julia è piaciuta veramente molto. Per quanto riguarda la questione del minimalismo poi, Studio la Città, storicamente, ha spesso proposto cose di questo genere (non solo, intendiamoci). Sembra che questo modo di intendere l’arte non si sia ancora esaurito ed anzi abbia subito una sorta di evoluzione in alcuni giovani. Potrebbe trattarsi anche di una rivisitazione in senso europeo, un po’ come accade per la Pop, chissà. E’ presto forse per parlare di una corrente vera e propria. Per ora mi limito ad osservare che l’arte minimalista ha sempre grandi estimatori (si pensi solo alla recente mostra della Guggenheim sulla collezione Panza); Julia, per es., è piuttosto quotata per essere una giovane: è del ’66, ha fatto la prima personale nel ’94 e le sue opere superano spesso i 20 milioni; gente come Max Cole o Herbert Hamak, poi, non sono da meno, anzi.
    Potrei ancora dire che c’è una cosa che mi pare ritorni in questi artisti, rispetto almeno, al minimalismo in senso stretto, ed è questo che genera quell’intimismo di cui parlavo. Si tratta di una sorta di progredire metodico di un calibrato gesto che si ripete infinite volte, come farebbe un artigiano; un faticoso, lento modellare. La Mangold interviene lungamente sulle cere per levigare la materia fino a renderla trasparente, fino a trasformare il duro materiale in qualcosa di delicato e all’apparenza morbido. Hamak seleziona resine e cere per poi mescolarle e metterle in forma in uno stampo ad asciugare lentissimamente. C’è, in questi due metodi di lavoro, qualche cosa di alchemico, ma anche qualcosa di antico (il levare della Magold come Michelangelo, il mescolare resine e cere come i colori di Cennini, così, di getto). Per dirla in breve queste opere contengono anche in sé tutta la carica dell’atto performante, che si caratterizza per il contatto fisico e maniacale con la materia. La riduzione minimale e geometrica è solo in principio affidata alla progettualità, ma poi, di fatto, si realizza nel gesto e in una manualità del tutto nuova (o vecchia, a seconda di dove si voglia partire). E’ ovvio, a questo punto, che questo tipo di approccio alla materia, questo padroneggiare tecnica e strumenti a ottenere effetti musicali e pittorici raffinati, non possono che indicare una sicurezza ed una fiducia dell’artista nelle proprie potenzialità di modellare e gestire spazi e materiali. Tutto ciò non solo si connota come un atteggiamento positivo, ma direi addirittura ottimistico. L’ammorbidimento dell’acciaio della Mangold è addirittura quasi manifestazione di onnipotenza.

  7. Dopo l’articolo, le splendide foto, i commenti e le puntualizzazioni in calce non credo che ci sia pagina alcune in internet e sulla carta dove questa giovane artista sia stata sviscerata più affondo!

    Complimenti al vostro prezioso lavoro e all’amore per dimostrate per l’arte ottimistica di questi giovani. L’arte ottimistica è – attenzione – difficile, non banale ma difficilissima come è difficile…ammorbidire l’acciaio.

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