La lettura degli ultimi lavori della fotografa brasiliana
Mona Kuhn (São Paulo, 1969; vive a Los Angeles), ospite presso la Jarach Gallery di Venezia nella prima personale italiana a lei dedicata, appare semplice e immediata. La ricerca dell’uomo, intesa come indagine anatomica ed estetica, attraverso i ritratti di una
comédie humaine distaccata e disinibita, che silenziosamente si offre ai nostri sguardi.
Ma, come spesso accade nella fotografia, l’immediatezza e l’onestà linguistica tradiscono livelli di analisi più profondi, oltre l’evidenza epidermica. Le 23 stampe fotografiche di grande formato (realizzate tra il 2004 e il 2006) ritraggono corpi nudi di giovani uomini e giovani donne immersi in atmosfere naturali e rilassate. Gli scatti sono stati raccolti nella monografia
Evidence, edita da Steidl nel 2007, e proseguono il lavoro di
Photographs, pubblicato sempre dalla prestigiosa casa editrice nel 2004.
I corpi, dalle forme armoniose, si lasciano ammirare, ora isolati, ora in gruppo, le espressioni assorte ma serene. Più che per l’avvenenza, evidente ma non preminente, le figure colpiscono per la bellezza interiore che si riflette nella purezza di sguardi luminosi che Kuhn, anche in fase di stampa, riesce a rendere appieno.
All about Eve,
Beyond,
Captured,
Refractions,
Orpheus,
La Belle Roxane,
Bather, tra gli altri, sono un pensiero neoplatonico, l’evidenza di una bellezza eterea che avvicina il terreno all’idea divina progenitrice.
Laddove il nudo, anche d’artista, non sarebbe riuscito a privarsi di una minima componente morbosa, i lavori qui esposti ne risultano assolutamente privi. I corpi sono elementi in costante dialogo osmotico, natura che si invera nella natura, senza protezione né barriere; usando figure retoriche, Kuhn ne sfoca i contorni, li ammorbidisce con giochi di luci e ombre, ne stravolge le forme con i riflessi di una vetrata per inserirli gradualmente in un contesto in cui tutto, spazio e elementi, tende a integrarsi, ad accogliersi.
Svincolarsi dall’assunto della messa a fuoco equivale ad assumere regole più alte e universali, così come offrirsi nudi agli altri. Prima ancora di sapere che i modelli appartengono alla comunità di naturisti francesi frequentata ogni estate da Kuhn e dunque amici dell’artista, si intuisce l’aspetto elitario dell’esperienza vissuta e documentata, la loro adesione a un mondo nascosto che giustifica anche la vicinanza dell’obiettivo e della fotografa, percepiti come figure alleate.
Questo eden primordiale non appare così turbato dalla nostra presenza e dal nostro ancestrale e inevitabile voyeurismo. I corpi -e l’artista attraverso di essi- non cercano seduzioni scontate, semplicemente esistono come sacerdoti o discepoli di un culto panico nel quale la nudità è uno stadio della conoscenza, una condizione di equilibrio fra creatura e creatore. La bellezza di questo
hortus conclusus retto da valori etici condivisi è la seducente soluzione alla corruzione di ciò che avviene invece oltre le mura.
Guardare, anche fotograficamente, vuol dire eleggere la propria bellezza, riconoscerla in questa realtà panottica (sembra dirci la ragazza ritratta in
Look at Looking) armonica e priva di clamore in cui tutti aspirano a vivere per guardare ed essere guardati.