La tela di quasi 4 metri per 3 e mezzo domina la parete. I colori cupi si fondono con il muro grigio antracite. Ma, al centro, la luce è sul dramma della
Pietà, la Vergine che contempla il Figlio sotto una cappella votiva imponente ma spoglia, la Maddalena scarmigliata che si rivolge a noi, rivendicando l’estremo sacrificio per la redenzione dell’umanità. È l’ultima opera di
Tiziano, testamento del maestro ritrattosi vecchissimo nelle sembianze smunte di san Girolamo. Anch’egli, come tutti, supplice al cospetto di Cristo, a invocare la salvezza dalla peste che di lì a poco lo avrebbe portato, con tanti altri veneziani, alla tomba.
Siamo nel 1576, è l’ultimo anno del divino artista. Il peso dei suoi ottantasei anni si sente guardando la tela. Il colore, steso con le punte delle dita ormai incapaci di impugnare il pennello, è lavorato con rabbia dai polpastrelli. Così il maestro portava all’estremo quella pittura, già praticata da venticinque anni,
che se il Vasari bene definì “
a macchia”, agli altri contemporanei lasciò l’amaro in bocca, insieme alla sensazione di incompiuto e non finito. Forse fu per questo che
Palma il Giovane, con la reverenza che si prova nei confronti dei mostri sacri, cercò di completare l’opera, aggiungendo solo qualche angioletto e una piccola iscrizione. Forse è per questo che le opere dell’ultimo Tiziano ci sembrano familiari e ci fanno inconsciamente invocare gli esiti più arditi della pittura espressionista.
La mostra, allestita nelle volte gotiche della chiesa della Carità nelle Gallerie dell’Accademia, è densa di capolavori e dà la possibilità di poterli apprezzare senza venir travolti dal
flumen lutulentum della quantità che sfinisce, annacquando ogni buon proposito. Nel
mare magnum delle “grandi mostre”, spesso più di nome che di fatto, questo è senza dubbio un merito.
In tre spazi distinti (ritratti, poesie o temi profani, temi sacri), la rassegna propone ventotto tele di Tiziano dipinte tra la metà del Cinquecento e la sua morte. L’allestimento crea un ambiente raccolto e mette a suo agio lo spettatore, che colloquia quasi ad altezza d’occhio tanto con i ritratti del terribile Aretino “
flagello dei principi”, del vecchio pontefice Paolo III, del corpulento Elettore di Sassonia e dei dogi, quanto con i due autoritratti del maestro stesso, anche se non ci guarda mai direttamente, forse per non svelare fino in fondo il proprio mistero creativo.
Il titolo della mostra richiama la sensualità delle ultime opere di Tiziano. Ma non si allude certo a una squallida
libido senectutis. La sensualità non si esplica tanto nello splendente e turgido tripudio delle carni di giovani donne mitologiche come la
Danae (esposta in due versioni: Prado, 1550-53 e Vienna, 1560-65) o la
Venere col suonatore di liuto (Met, 1565-7), quanto piuttosto nel colore forte, materico, steso in grosse pennellate drammatiche e teatrali. Che rendono i due
Tarquinio e Lucrezia altrettanti fotogrammi, violenti e ineluttabili, di uno stupro.
La sensualità di questo Tiziano filologicamente fa appello al senso, al tatto, alla corporeità e alla materia. Il che non significa che non sappia essere spirituale. Si veda il
Cristo crocefisso e il buon ladrone (Bologna, 1565), l’
Ecce Homo (Dublino, 1560) o di nuovo la
Pietà: figure statuarie, tensione più intellettuale che fisica, colori bruciati e lividi a esprimere l’inesorabilità della morte e del destino.
Quel “non finito” che i contemporanei avevano giudicato incompiutezza e disequilibrio assume per noi il significato, opposto, di infinito, trascendente e sublime. E profondamente ci emoziona.