Victoria Morton, classe 1971, non è che l’ultima di una truppa d’artisti provenienti dalla terra di Scozia (e per lo più da Glasgow) che si è affermata a livello internazionale. Gli altri, giusto per non far nomi, si chiamano Roderick Buchanan, Douglas Gordon, Andrew Grassie, Claire Barclay, Jim Lambie, Simon Starling, Lucy McKenzie, Ross Sinclair, Peter Doig.
Strana pittura quella di Victoria: a prima vista la si definirebbe assolutamente aniconica, espressionista, addirittura vicina a certe varianti raffinate dell’Informale italiano. Ma, a guardare con attenzione, si scopre un’attitudine accumulativa che poco ha a che
Quello della Morton è un immaginario implosivo avvolgente, dalla verve romantica ed intimista, in cui l’astrazione sembra preludere ad un progressivo svelamento di senso. Non è difficile infatti scoprire, negli anfratti degli agglomerati cromatici dell’artista, strane sagome antropomorfe e zoomorfe, occhi che sembrano osservare lo spettatore dall’interno, punti di fuga impossibili, texture che ora paiono tessuti ora fiamme, figure vegetali e fiorami.
C’è un’anomala profondità che, tradendo nel dettaglio la memoria della tradizione cubista, è resa attraverso una gestione coerente delle forme e un’alternanza ritmata di linee e campiture cromatiche, i cui contorni netti si intervallano a profili vaporosi: gli oli su tela dell’artista risultano cangianti al mutare della luce e, nella penombra, si accendono di tenui azzurrini, di gialli, di rosa.
E tutto quell’intrecciarsi e svaporare, quell’ingrossarsi e quall’assotigliarsi di forme, fino addirittura a ferirsi in un dripping rosso sangue, sono portatori di suggestioni armoniche e dinamiche di sicuro impatto emotivo.
Andrebbe deluso chi pretendesse da una pittura come questa una dirompente novità e originalità, o una stretta coerenza rispetto alle direzioni della ricerca contemporanea; un approccio più soddisfacente si avrà contentandosi, si fa per dire, di coglierne la malinconica bellezza senza tempo.
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