La storia della Biennale di Venezia, dal dopoguerra agli anni Ottanta, si srotola in bianco e nero nelle salette del Guggenheim. I protagonisti dell’arte di mezzo secolo mostrano il loro vero volto attraverso gli scatti fotografici dell’agenzia Cameraphoto, destinati a riviste come Times, Life o Epoca, acquistati di recente dall’Archivioarte Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. La liason tra le due istituzioni è retta dalla curatela di Luca Massimo Barbero, che ha selezionato tra gli oltre 12 mila negativi le immagini con cui costruire una storia visiva ghiotta e voyeurista, confluita e ampliata nel curato catalogo dalla copertina argento vintage, utile come repertorio di immagini e di storia del costume.
La mostra, inscatolata tra pareti in colori primari e pannellature specchianti leggermente anamorfiche, percorre una storia visiva che ci ricorda come l’aggiornamento artistico dagli anni Cinquanta a quelli della contestazione ebbe come sede privilegiata proprio la manifestazione di Venezia, archetipa di tutte le biennali.
Se ad inaugurare un accumulo quasi cinematografico di immagini è il decano Matisse, concentrato nel ritagliare le sue carte colorate, subito seguono Rodolfo Pallucchini (allora segretario della Biennale), intento a convincere Picasso a partecipare finalmente all’edizione del ’48; e una sempre elegante Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, mentori di un aggiornamento artistico che rimediasse al gap culturale calato in Italia con la guerra e l’oscurantismo fascista.
Di lì è tutto un divertissement giocato sulla sorpresa. Salvador Dalì sornione su una gondola, col sopracciglio spiritato; Mathieu che dipinge La battaglia di Lepanto alla galleria del Cavallino nel ’59; gli americani capeggiati da Robert Rauschenberg che sbarcano in laguna la pop-art negli anni Sessanta; e Leo Castelli che parla con Roy Lichtenstein.
Come piccoli tuffi nella nostalgia, altre immagini ritraggono gli innamorati Paola Pitagora e Renato Mambor al tempo della Scuola di Piazza del Popolo; Pino Pascali col foulard annodato al collo (morirà pochi mesi dopo l’inaugurazione della biennale del ’68); Gino De Dominicis con sigaretta in bocca che sistema lo scheletro coi pattini (Senza titolo, 1969-70). Dieci anni dopo, Harald Szeemann ritratto negli uffici dell’istituzione.
Alcune modelle, inviate dalle riviste per motivi redazionali, passeggiano e interagiscono con le opere, contribuendo ad aggiungere eccentricità ai set: capita così che pure il rigoroso Alberto Giacometti si ritrovi in un sospeso tête-à-tête con una sciantosa ragazza bionda; o che una signorina-grandi-firme si accosti in posa a vagliare un’opera di Fontana. A rubare la scena all’arte non sono solo scalpori e novità esterofile, ci sono anche i veneziani veri: il bambino in sandaletti e il prete con la tonaca tra i dipinti di Vedova, la bambina esposta da De Dominicis al posto del ragazzo down (l’opera Seconda soluzione di immortalità) dopo lo scandalo e la denuncia all’inaugurazione del 1972.
Dalla “biennale poliziotta” del Sessantotto, con le guardie che marciano compatte verso i manifestanti, alle costruzioni di Mario Ceroli; dalla giga-palla di carta di Pistoletto (La palla, 1966) a Julio Le Parc e Vito Acconci. Anche le stanze degli anni Settanta scorrono veloci, terminando con una grande stampa a colori che il 10 giugno 1972 riprende piazza san Marco gremita dalla folla in attesa dell’happening del Mass Moving belga: la liberazione di 10 mila disgraziate farfalle (per la maggior parte defunte a causa di una troppo lunga permanenza nei teloni).
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