Venti opere, tre di proprietà della stessa Fondazione Domus e una decina prestate dal Mart di Rovereto, celebrano ancora un volta Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964). O meglio, per dirla con Roberto Longhi, il monaco Morandi. L’esposizione racchiude una gran porzione di vita del pittore bolognese, tra la realizzazione de Le bagnanti (1915) e la Natura morta del 1960. Una vita appartata, schiva, austera, caratterizzata da un distacco nei confronti del mondo. Ma Morandi “nella sua cella è il contrario dell’esteta nella torre d’avorio”
Le bagnanti è un’opera che risente di evidenti influssi cézanniani e rappresenta una rarità nella produzione morandiana (se conoscono solo altre due versioni). Qui l’artista bolognese ha ormai metabolizzato la lezione cromatica e stilistica di Braque e del primo cubismo di Picasso, adottando un approccio al soggetto da natura morta, come confermerebbe il ricorso a figure di argilla come modelli. La Natura morta del 1926 evidenzia invece un più spiccato interesse per il dettaglio percettivo -come dimostra l’accurata forma delle pere- e nel colore, che riproduce le tonalità della luce in modo realistico.
Progressivamente la tavolozza si muove verso il grigio, mentre solo qualche marrone scalda la tela (come nel caso delle coeve nature morte del 1930); è in corso il lento disfacimento del soggetto, di cui viene tratteggiato quasi il solo profilo. Morandi sembra perdere pian piano l’interesse per la rappresentazione in senso tridimensionale e gli oggetti (le bottiglie, i vasi) si appiattiscono, ciascuno nel proprio colore, senza degradazioni o sfumature.
Questo processo sembra invertirsi sul finire degli anni Trenta, quando un nuovo interesse per la figurazione in chiave più realistica sembra animare il pittore. Nasce così la splendida Natura morta con conchiglia, anche se la forma degli oggetti sembra diventare molle, ondivaga, quasi come se il modo fosse visto da uno specchio che falsa le proporzioni e deforma la realtà.
Una realtà che nei paesaggi non lascia posto alla figura umana. Sia nei lavori degli anni Venti realizzati nei pressi di Grizzana sull’Appennino bolognese, che in quelli dipinti in maturità, condensati in zone di puro colore. Tra questi spicca il Paesaggio (1942) – che l’autore aveva scelto per la IV Biennale di San Paolo- quasi privo di riferimenti visivi, senza alcun dettaglio. Come l’Autoritratto del ‘24, in cui lineamenti del viso e identità sono, senza alcuna forma, affogati in uno spietato silenzio.
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