Sospensione silenziosa del tempo e pulizia dello spazio, in una sintesi sublime tra realtà e trascendente. Sono queste le componenti scenografiche offerte dal Palazzo Palombo Fossati per questo evento targato 52. Biennale Internazionale d’Arte di Venezia e curato da Achille Bonito Oliva. È la sobria personale veneziana di Lee Ufan (Seoul, 1936) il teorico di Mono-Ha/Scuola delle cose, che con Gutai rappresenta l’espressione più avanzata dell’arte moderna giapponese del dopoguerra. Una corrente costituita da Kishio Suga, Katsuro Yoshida, Susumu Koshimizu, Nobuo Sekine e Katsuhiko Marita (tutti nati negli anni ’40), che nel 1969 codificano un fare artistico incentrato sull’uso di manufatti e materiali naturali, serviti nella loro più semplice apparenza, la cui essenza muta legandosi alle diverse location in cui sono disposti. Un’operazione mentale e fisica, realizzata dal vero “artista”, colui che ha il compito di distogliere la gente dalle cose “che hanno sempre creduto essere la realtà”. Quindi, a differenza dei movimenti “occidentali” apparentemente contigui a Mono-Ha –Minimalismo, Land Art, Anti Form– che propongono un’arte puramente visiva, Ufan e i suoi compagni rifiutano la pura attenzione all’oggetto in sé, spostandola sulla sua esistenza e immagine, nonchè sulla relazione dinamica che esso instaura con lo spettatore e lo spazio circostante. Un incontro tra interiorità ed esteriorità in cui si realizza la vera arte (che per Ufan è anche sinonimo di poesia), una relazione descritta sinteticamente dal teorico coreano con la parola “yohaku”, che significa “vuoto” o meglio “spazio risonante”, il complesso concetto che ispira il titolo della mostra, Resonance.
Lee Ufan delinea un “campo” dai confini fragili, artificiale e reale insieme, paragonato al suono generato dal battito di un tamburo, vibrante nel vuoto. E sono in particolare le dieci pitture -senza cornici, realizzate direttamente sul muro o su tela, tutte su fondo bianco- ad instaurare questo anomalo dialogo con lo spazio circostante e con il pubblico. La larga pennellata argentea, degradante e ambigua, apre idealmente un varco vellutato nella bidimensionalità del supporto, oltrepassandolo e ritornando poi in superficie, aiutata dalla sapiente illuminazione, che esalta la prerogativa cangiante del colore ad olio. Lo yohaku vibra anche dove sono isolati grandi massi levigati, posti sul pavimento in granito con cui paiono mimetizzarsi, oppure lì dove si stagliano netti contro il candore di fondo. O, ancora, dove appaiono in equilibrio con il nero “silenzioso” delle gravose lastre di ferro, erette o adagiate per terra e quando fungono da “architrave della visione” in qualità di contrappunto, ai lati di un’immensa pseudo-stadera. Parlare di allestimento rigoroso è decisamente superfluo, in quanto “allestire” per l’artista coreano è l’azione fondamentale del momento creativo: è nella giustapposizione degli elementi scelti che viene a materializzarsi quell’intreccio tra tempo e spazio che sostituisce alla più convenzionale rappresentazione la cosiddetta presentificazione. Un’accezione propria delle installazioni del padre di Mono-Ha, divergente quindi dalla pratica delle correnti occidentali succitate, perché Ufan preferisce alla staticità dell’objet trouvé, il senso del dinamismo e dalla trasformazione, che esprimono la mutevolezza delle cose esposte (di quelle cose normali in origine, che qui sono presentificate, appunto), venendo a coincidere col gesto creativo. Gesto che marca il legame indissolubile col luogo in cui si compie, giustificando la scelta dell’artista coreano di voler realizzare solo opere effimere e, per questa stessa natura, mai idonee al contesto museale convenzionale. Un’occasione rara e preziosa, quindi, la mostra di Palazzo Palumbo Fossati, in cui Ufan “accoglie il tempo nel suo battito costante”, racchiuso nell’equilibrio zen delle sue superfici risuonanti.
giusy caroppo
mostra visitata il’8 giugno 2007
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splendida mostra
Mostra imperdibile, e complimenti a Paolo De Grandis di Arte Communication che non sbaglia mai nelle sue scelte.