Entri in galleria e il tuo sguardo è subito rapito dalla grande stanza semibuia sulla sinistra, irraggiata da toni azzurrognoli. Perché l’occhio tende a cercare, a correre istintivamente verso il conosciuto, piuttosto che avvertire l’inesplorato. E la mente vuole tornare a giocare con quelle trame, perdersi in quelle strutture che ogni volta propongono una visione diversa e sempre misteriosa. Vuole accettare la tenzone semiotica indetta da quei nomi immaginari ed evocativi,
kadan,
asmar,
tulga,
dobas,
nalik.
I toni azzurri sono quelli di
Relational Domain, video-installazione ambientale del 2005 del duo
Bianco-Valente (Giovanna Bianco, Latronico, 1962; Pino Valente, Napoli, 1967. Vivono a Napoli). Empireo stellato, attraversato dal fitto intreccio di parabole che diventano rotte aeronautiche per l’osservatore-viaggiatore, e quei nomi arcani a segnarne le intersecazioni. Un lavoro che immette decisamente nel cuore della loro ricerca, ne presenta emblematicamente il typos. Colore, calore, linee, punti.
Elementi primari, che Bianco-Valente organizzano in sistemi d’immediata empatia, che pongono l’osservatore in una condizione di attiva partecipazione interiore. Perché gli artisti non annettono un proprio univoco punto di vista, ma predispongono un affascinante “campo” dove si esercita il continuo crash percettivo fra riproduzione di un “reale” e immagine mentale dello stesso, che essi stessi riconducono a una primaria dualità fra corpo e mente. Ma anche per il delicato equilibrio, grazie al quale elementi base della comunicazione visiva – quindi “accessibili” e affini a tutti – e tecniche espressive e di comunicazione evolute riescono a convivere virtuosamente con una carica di novità e freschezza d’ispirazione primigenia, quasi pre-culturale, che pare sempre non appesantita dal vaglio critico.
Il modulo è sempre quello fortemente evocativo della rete, dell’intreccio e dell’incrocio, che ammicca ai collegamenti neuronali, con il processo cerebrale che diviene contemporaneamente soggetto e oggetto dell’atto creativo.
Rete che, poco più avanti, in
Adaptive – stampa lambda del 2008 – guadagna il senso panico di un viluppo di rami di albero, mentre in
Reactive, trittico fotografico del 2008, il punto di vista s’inverte, e l’osservazione del globo, l’abbraccio ultraterreno del tutto e dei nessi che lo attraversano dà alla visione un forte senso di metafisica trascendenza. È piccola ma esauriente e pregnante questa antologica, elegantemente ordinata da Riccardo Caldura.
Torni verso l’ingresso, ed eccolo, il nuovo, l’inesplorato. Da una stanzetta giungono i suoni sincopati di un interruttore, anzi di un relais. Suoni che ambientano il nuovo lavoro del duo, un site specific –
The effort to recompose my complexity, 2008 – realizzato sulle pareti della galleria. Uno stacco deciso: niente colore, niente calore, atmosfera dura, secca, concettuale, che lì per lì fa pensare a
Giulio Paolini. Pian piano ci entri dentro, ed entri in una rete di secondo livello, che avvolge nei ritmi serrati del suono. Una rete delle reti, un sistema complesso che disegna una connessione superiore, che l’aridità con cui si presenta ti spinge con turbamento a percepire come controllo.
Il glam comincia a essere un po’ affollato, e chi ha “parole” di bellezza universale da dire, serra le fila.