Se John Ruskin ripercorresse oggi con lo sguardo il Canal Grande, pazzamente reso variopinto dai tanti rigurgiti di Biennale che ne saturano ogni scorcio, resterebbe piacevolmente attratto – lui così fortemente incline alla severità neogotica – da
Torre, ultima fatica di
Wim Delvoye (Wervik, 1965; vive a Gent).
Assolutamente decontestualizzata dal luogo, eppure così perfettamente a proprio agio di fronte al candore marmoreo di Ca’ Venier dei Leoni, già dimora della ricca ed eccentrica Peggy Guggenheim, che la ospita, l’installazione dell’artista belga svetta sprezzante sui volumi incompiuti e tozzi del palazzo opera dell’architetto settecentesco
Lorenzo Boschetti.
Pensata per lo spazio veneziano, per esser protagonista di quella terrazza-ingresso acqueo sul quale solitamente trova collocazione la licenziosa statua equestre di
Marino Marini, la costruzione supera con i suoi circa dieci metri il tetto dell’edificio, creando una frapposizione inattesa ma curiosa fra pietra e acqua e fra pietra e cielo, elementi nei quali s’inserisce ombrosa e silente.
Con lo stesso taglio provocatorio e destabilizzante, dagli evidenti richiami surrealisti, dall’attrazione per gli estremi, che da sempre ne caratterizza la ricerca artistica (
Cloaca è solo l’esempio più immediato e pratico), Delvoye reinterpreta il sincretismo culturale della Serenissima Repubblica, l’illogica dell’accostamento – talvolta dell’accavallamento dispotico e paratattico tra classico e anti-classico – linguistico che a Venezia è cifra stilistica unica e impareggiabile, creando un’opera anacronistica eppure prêt-à-porter, collocabile in ogni dove e in ogni tempo.
Quella maniera attuata dai Goti, bollata dalla mentalità rinascimentale vasariana come “
mostruosa e barbara”, diventa invece per l’artista “
l’evocazione della primavera d’Europa”. Un linguaggio che ha uniformato – pur all’interno di profonde differenze culturali locali – nel tempo e nello spazio una vasta area del mondo civilizzato.
E proprio come arte eterna, la
Torre gotica, ispirata dagli alti esempi di Notre Dame di Parigi e di Saint John the Divine di New York e filtrata dal gusto romantico ottocentesco per la cultura medievale (intuibili nel progetto forti richiami al concetto di sublime espresso da Edmund Burke), arriva ai giorni nostri, nel centro nevralgico della contemporaneità.
Realizzata in corten, un acciaio bassolegato (rame e cromo) dall’alta resistenza agli agenti atmosferici e alla corrosività del tempo, si colloca come elemento onirico eppure tangibile, con i suoi pinnacoli, le ogive, i fitti ricami ornamentali merlettati e ridondanti, tagliati dalla precisione millimetrica del laser che la rendono pesante e presente come solo l’architettura gotica d’oltralpe ha saputo essere, eppure leggera e ariosa come un gioco decorativo.
La struttura, tesa nello slancio d’eleganza verticale, si lascia filtrare da aria e luce, permeata da un rigore sacrale nella cui ascesa al cielo “
l’occhio umano ritrova la gioia dello sguardo”.